Padre Luigi Consonni

Prima lettura (Ez 37,12-14)

Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele.
Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio.
Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

Il profeta prende spunto dallo scoraggiamento che serpeggia fra gli esiliati, motivato da un futuro privo di speranza e carico di nostalgia del passato: “Le nostre ossa sono secche; la nostra speranza si è estinta”. La lontananza dalla patria, dalla terra promessa, ha un effetto devastante, come ricordato nel salmo 137: “Là – nell’esilio di Babilonia – ci chiedevano parole di canto (…) allegre canzoni, i nostri oppressori (…) come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se mi dimentico di te Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra” (3-6).
L’esilio, per il popolo, è come un tumulo, un deposito di ossa secche, pieno di disperazione e senza futuro. La causa, nonostante il costante richiamo dei Profeti, è l’allontanamento da Dio del popolo, dei teologi – gli scribi – e delle autorità per il praticare uno stile di vita contrario all’Alleanza.
Anche oggi l’esilio è la metafora della condizione personale e sociale di infedeltà, indifferenza, di superficialità riguardo alla nuova ed eterna Alleanza stabilita da Gesù Cristo. Esso coinvolge la persona e la comunità sotto il profilo umano, psicologico, etico, sociale e spirituale, causato dalla pratica dell’ingiustizia, del sopruso, del dominio e altro…, dallo stile di vita egocentrico, autoreferenziale e, sostanzialmente, indifferente a ciò che non incide sulla vita personale.
Vengono meno riferimenti importanti che impoveriscono o, addirittura, annullano la necessaria interazione per la crescita individuale e comunitaria nella pienezza di vita. È come segnare il passo nell’illusione di camminare. Con ciò la vita è diminuita in tutti i sensi, come quella sottoterra dove vanno le persone dopo la morte, secondo la tradizione d’Israele. Una vita che, drammaticamente, il profeta compara ad ossa rinsecchite.
Ecco, allora, l’intervento del Signore, fedele all’Alleanza e al compimento della promessa: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi ricondurrò nella terra di Israele”. Il passato sarà memoria delle conseguenze del peccato, affinché le generazioni future si ravvedano dal commettere lo stesso errore.
Il Signore annuncia: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra”. Il pensiero va a quando “Dio plasmò l’uomo con polvere e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen.2,7). L’intervento sarà la nuova creazione, la rigenerazione della persona e della società infondendo e assumendo la nuova vita che rispetti gli aspetti imprescindibili dell’Alleanza.
Vivere non è solo riacquistare l’esistenza individuale, ma stabilire autentici rapporti interpersonali e sociali nel consolidare il diritto e la giustizia, nel rispettare la natura e il creato. Vivere, è assumere come propri i valori che fanno di questa terra la realtà promessa, nel riconoscere e fare esperienza del Dio della vita, la meta stabilita da Dio, l’avvento della sua sovranità, della pienezza di vita – “vi farò riposare nella vostra terra” – nell’armonia con tutto ciò che esiste attraverso l’accoglienza dell’avvento del suo Regno.
Dio riconduce Israele alla dignità di “popolo di Dio” e realizza il suo sogno per l’umanità, in sintonia con il comandamento dell’amore e la pratica di esso, affinché il popolo abbandoni definitivamente la prassi di trasformare la terra promessa nell’Egitto di allora, luogo di schiavitù, del peccato e del male, ovvero il sepolcro di scheletri.
Lontano da Dio non c’è salvezza. È pernicioso, nel senso profondo del termine, perseguire progetti propri per trarre vantaggi personali; confidare semplicemente in giochi di potere; stabilire alleanze fra popoli fondate sulla convenienza d’interessi corporativi delle classi dominanti; strumentalizzare la religione per garantire privilegi che non hanno nulla a che vedere con il rispetto dell’Alleanza; stabilire un’organizzazione sociale oppressiva e discriminante a danno dei poveri e dei meno favoriti.
Nella rinnovata condizione di popolo di Dio “Saprete che io sono il Signore”, il Dio della vita, della gioia, della fraternità e della solidarietà, del rispetto vicendevole, della vita in abbondanza. “L’ho detto e lo farò”: queste parole risuonano come giuramento e trasmettono la certezza che il disegno di Dio, riguardo al regno, si compirà con la collaborazione del popolo.
Tuttavia la storia segnerà altre delusioni e, alla fine, Dio risponderà con l’invio del Figlio e dello Spirito, per stabilire la nuova ed eterna alleanza e donare le nuove condizioni per rimanere stabilmente in comunione con Lui.
È il senso della seconda lettura.

Seconda lettura (Rm 8,8-11)
Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

Paolo argomenta sulla nuova condizione del cristiano per la presenza, in ognuno, dello Spirito Santo e afferma: “Voi… siete sotto il dominio dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. Egli non ignora la tentazione e il pericolo di lasciarsi “dominare dalla carne”, da proposte e progetti contrari che “non possono piacere a Dio”, e mette in luce alcuni aspetti:

a) Lo Spirito trasmette il senso di appartenenza a Cristo.
Paolo lo esprime con una formula negativa ma il contenuto è lo stesso: “Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”. Lo Spirito di Cristo è la realtà che lo conforma e gli appartiene in virtù della risurrezione. È lo Spirito del Risorto trasmesso, per la fede, al credente. È accogliere la volontà del Padre e l’azione dello Spirito con il passaggio dal Gesù storico a Gesù Cristo della fede escatologica, quella che impianta all’inizio della sua missione (Lc 4, 14-21)
Ecco nel credente emergere, nella profondità dell’essere, l’appartenenza vicendevole, come quella dell’amante con l’amata uniti dall’amore. La coscienza della trasformazione è acquisita solo per la fede. Essa non dipende dal merito o da particolari qualità ma dall’accoglienza, fiduciosa e grata, del dono, effetto della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

b) “Lo Spirito è vita per la giustizia”.
La nuova vita trasmessa dallo Spirito al credente lo rende paladino della giustizia di Dio, con il percepire la nuova condizione di figlio nel Figlio, di figlio di Dio per adozione. Così declina la giustizia di cui è partecipe con parole ed opere, nei diversi contesti e nelle diverse circostanze della vita. È sintonizzare con il dono di Dio, attivo nel corretto rapporto con le persone, la società e il creato. È entrare nel flusso circolare e permanente dell’amore trinitario, per il quale il dono cresce e aumenta nel donante come nel ricevente. La giustizia è il dono della vita in abbondanza di Dio.

c) “Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto al peccato”.
Riguardo al dominio della carne, Paolo si rivolge ai cristiani di Roma ricordando loro la nuova condizione e asserisce: “Non siete sotto il dominio della carne”. Oggettivamente essi sono “nuova creatura” per la vita nello Spirito, contraria al dominio della carne, espressione della giustizia di Dio nei loro riguardi.
L’apostolo, afferma che “quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio” e mette in luce la fragilità, la superficialità o l’inconsistenza della loro appartenenza a Cristo. Con il condizionale “se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto al peccato”, evidenzia la poca solidità o convinzione dell’appartenenza a Cristo, il che declina, di nuovo, la vulnerabilità della nuova creatura al peccato.
La nuova condizione non annulla la tentazione, né il suo fascino e la seduzione, al punto che il credente non sempre è pronto a vincerla. Gesù stesso, dopo la vittoria sulle tentazioni nel deserto, fu tentato continuamente nelle diverse circostanze, fino a pochi istanti prima di morire.
Ma lo Spirito è vita per la giustizia”. Per Paolo è la singolare condizione umana della nuova creatura. Da un lato il corpo è come ferito a morte a causa del peccato, dall’altro è pieno di vita per il dono della giustificazione che redime, dona nuova vita, speranza e futuro.
Sorge la domanda: come comprendere che un corpo ferito a morte dal peccato sia, allo stesso tempo, pieno di vita? La condizione umana porta a escludere l’uno o l’altro aspetto. Ritengo che Paolo rifletta a partire dalla condizione singolare del Risorto. Egli mantiene nel suo corpo le ferite della passione, pur partecipando della vita indistruttibile. Il potere mortale di quelle ferite è svuotato, ed ora esse manifestano la realtà di una vita che va oltre la condizione umana. (Tradotto in termini umani è come avviene con il rimarginarsi della ferita: la cicatrice resta ma non duole, la si vede continuamente ma non ha nessun effetto). Si tratta della condizione singolarissima dell’umanità immersa nella gloria di Dio.
Alla luce della risurrezione la tensione e il conflitto, determinati dalla tentazione della carne e dalla presenza dello Spirito, non sono annullati. Tuttavia la risurrezione garantisce la vittoria dello Spirito sulla carne, non per il possesso dello Spirito da parte del credente ma per la costante apertura al dono di esso, permanente azione ricreatrice di Dio per mezzo dello Spirito. Il credente è chiamato ad accogliere il fluire di esso, indispensabile per la vittoria, per la salvezza.
La salvezza OGGETTIVA, donata da Gesù Cristo a ogni persona e all’umanità con la sua morte e risurrezione, diventa SOGGETTIVA per la fede del credente.
Paolo stesso ne dà testimonianza nel capitolo sette, quando afferma che solo per il dono (la grazia) si ottiene la salvezza. “Lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti (…) darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. Lo Spirito abita perché dono, non possesso. Il corpo rimane mortale, ma la morte non è l’ultima realtà: il dono contiene la vittoria sulla morte stessa, nonostante la nuova creatura debba passare per essa.
In chi segue Cristo è la risurrezione dalla morte e dai morti, propria della condizione umana. È la testimonianza della risurrezione di Lazzaro.

Vangelo (Gv 11,1-45) – adattamento dal commento di Alberto Maggi

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Il destino di chi si è fidato e ha creduto in Gesù, viene presentato da Giovanni, nel suo vangelo.
un certo Lazzaro di Betania”; il nome Lazzaro significa “Dio che aiuta”; “il villaggio (…)” è un luogo di incomprensione, se non di opposizione, è il luogo attaccato alla tradizione, che fa difficoltà ad accogliere la novità portata da Gesù.
(…) di Maria e di Marta sua sorella, era malato”; l’evangelista, attraverso tre personaggi, presenta una comunità. Che si tratti di una comunità poi lo rivela più sotto quando dice: “le sorelle mandarono dunque”: doveva scrivere le sue sorelle, ma omettendo il possessivo, l’evangelista vuole indicare che si tratta di una comunità.
Ebbene, questa comunità vive il momento della malattia mortale di uno dei suoi adepti, e mandano ad avvisare Gesù. Stranamente Gesù non si muove, – del brano commentiamo soltanto le parti essenziali perché è molto lungo -. Saltiamo al versetto 17: Lazzaro, con il momento della morte, è entrato nella pienezza della dimensione divina. Tutto il brano è un invito alla comunità cristiana a cambiare il concetto della morte.
Quando Gesù arrivò, lo trovò che già da quattro giorni era nel sepolcro”; perché “quattro giorni”? Si credeva che, per tre giorni, lo spirito dell’individuo restava a vegliare il cadavere. Quando poi non si riconosceva più nei lineamenti del volto, per l’inizio del processo di decomposizione, scendeva nel regno dei morti, quindi era completamente morto.
Gesù non entra nel villaggio, il luogo dell’incomprensione. Per incontrare Gesù, occorre uscire dalla tradizione, dal villaggio, e allora Marta “dunque come udì che veniva Gesù, gli andò incontro”, ed investe Gesù di un rimprovero. Dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”.
Avevano avvertito Gesù che il fratello era malato, che era grave, e Gesù non si era mosso. Gesù sembra non essere mai presente nei momenti di bisogno, e quindi Marta rimprovera Gesù. Ma dice: “anche ora so”; lei si rifà a quel che sa, cioè alla tradizione, “che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. Gli evangelisti distinguono tra il verbo chiedere ed il verbo domandare: il verbo chiedere è una richiesta di un inferiore verso un superiore, il domandare una richiesta alla pari. Qui, per Marta, Gesù deve chiedere, quindi lei non ha ancora compreso che Gesù è uguale a Dio, che Gesù è Dio.
E Gesù le risponde: “tuo fratello risorgerà”; non l’avesse mai fatto, si becca una reazione stizzita da parte di Marta. Infatti “Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno»”. Quando una persona è in lutto, se per confortarla gli si dice che la persona defunta risorgerà, ma quando? Non solo non gli si dà consolazione, ma la si getta nella disperazione. Quando risusciterà? Oggi, domani, tra un mese, tra un anno, alla fine dei tempi? E va bene, per la fine dei tempi anche noi saremo morti e già risuscitati, non è una consolazione. Quindi Marta risponde seccata: “so che risorgerà, nella resurrezione dell’ultimo giorno”, perché questa era la credenza farisaica della resurrezione. Si viveva, si moriva, si finiva nel soggiorno dei morti, poi l’ultimo giorno, un giorno finale, ipotetico, ci sarebbe stata la risurrezione dei giusti.
Ed ecco la rivelazione di Gesù, che cambia completamente il concetto di vita, il concetto di morte, il concetto di risurrezione.
Gesù le disse: “io sono”, io sono non è una rivendicazione di presenza, ma è la rivendicazione del nome divino, è il nome con il quale Dio si rivelò a Mosè: “io sono”. Quindi Gesù rivendica la pienezza della condizione divina, “la risurrezione e la vita”, non dice io sarò, lui è la risurrezione e la vita; quindi, la vita e la risurrezione non saranno, ma sono già.
E poi la risposta di Gesù si articola in due elementi. Il primo, alla comunità che piange uno dei componenti che è defunto, dice: “chi crede in me”; Lazzaro ha creduto in lui, “anche se muore”, anche se adesso vedete un cadavere, “vivrà”, continua a vivere. Quindi Gesù richiede, alla comunità che piange un morto, di avere questa fede.
Ma poi, ai componenti della comunità che sono vivi, Gesù dice: “chiunque vive”, e quindi voi che siete vivi, “e crede in me”, e mi avete dato adesione, “non morirà in eterno”, non morirà mai. Gesù assicura che non si farà l’esperienza della morte: la morte non interrompe la vita, ma introduce subito a una dimensione nuova, piena, definitiva dell’esistenza.
Ma Gesù chiede a Marta se arriva a credere questo, ed ecco finalmente la crescita nella fede, “Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo»”. Finalmente Marta è cresciuta nella fede.
Bene, continua il brano e saltiamo al versetto 33: “Gesù allora, quando la vide piangere”, c’è stato l’intervento dell’altra sorella Maria, che ha rimproverato Gesù con le stesse parole, “e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente”; veramente il verbo adoperato dall’evangelista non è commuovere, è fremere, reprimere una forte sensazione, potremmo tradurre sbuffò, fremette, e Gesù non sopporta questa situazione perché la sua comunità piange esattamente come piangono i Giudei, come piange la tradizione.
E Gesù, qui al versetto 35, non scoppiò in pianto, Gesù lacrimò. L’evangelista adopera due verbi differenti per quelli di Marta, Maria, i Giudei, e per il pianto di Gesù. Per il pianto di Gesù usa lacrimare, un’espressione di dolore, per il pianto delle sorelle usa invece il pianto che si faceva nel cordoglio funebre, che indicava la disperazione totale.
Ed ecco “allora” che “Gesù”, ancora fremendo, reprimendo sé stesso, “si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra”; questa pietra apparirà per ben tre volte, per indicare che è questo che domina la narrazione, erano dei sepolcri scavati nelle grotte, e, di fronte, veniva posta una pietra. L’espressione italiana: “mettiamoci una pietra sopra”, deriva proprio da questi usi funerari; quando ci si è messa una pietra, significa che (tra) il mondo dei morti e quello dei vivi, non c’è più continuità, non c’è più comunicazione.
E qui Gesù inizia a dare ordini imperativi. Sono tre: il primo è: “togliete la pietra”, siete voi che avete recluso il defunto lì dentro, e voi dovete togliere questa pietra. E reagisce Marta, Marta che viene indicata come “la sorella del morto”. È superflua questa indicazione, sappiamo che Marta era la sorella del morto, ma l’evangelista sottolinea che questo della morte era il clima, il pensiero che dominava la comunità, “«Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni»”.
Le disse Gesù: “«Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?»”, nella vita indistruttibile si manifesta la gloria di Dio. “Tolsero dunque la pietra” che loro avevano messo, ed ecco gli ultimi comandi di Gesù: “Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!»”; la tomba, il sepolcro non è il luogo per un discepolo del Signore, il discepolo del Signore, nel momento della morte, entra subito nella piena dimensione della sua esistenza.
Gesù ha chiamato Lazzaro, ma non esce Lazzaro, esce il morto. Gesù chiama Lazzaro, ma esce il morto, perché Lazzaro non c’era nel sepolcro, Lazzaro era già nella pienezza dell’amore del Padre: è il morto che deve uscire dal sepolcro: Insomma, l’evangelista vuole aiutare la comunità a cambiare completamente mentalità riguardo alla morte, che le persone defunte non stanno in un sepolcro ma continuano la loro esistenza nella pienezza della dimensione divina.
Il morto uscì”, e, stranamente, con “i piedi e le mani legati con bende”, che non era la maniera di seppellire da parte dei Giudei. Il cadavere veniva lavato con acqua e aceto, poi veniva posto un telo sopra, ma non veniva legato. Perché qui il morto ha i piedi e le mani legate? Perché essere legati era il simbolo della morte. Nei Salmi si legge: “mi stringevano le funi della morte”; essere prigionieri della morte: sono loro che l’hanno legato con queste bende, e lo hanno reso prigioniero della morte.
Gli ultimi comandi di Gesù sono rivelatori: “Gesù disse loro: Liberatelo”, cioè scioglietelo, siete voi che lo avete legato come un morto senza vita, l’avete relegato in questo sepolcro. E l’ultimo comando è strano: scioglietelo, e ci saremmo aspettati “fatelo venire, andiamogli incontro, accogliamolo, festeggiamolo”. Nulla di tutto questo. L’ultimo comando stranamente è: “lasciatelo andare»”; ma dove deve andare? Il morto che deve andare dove Lazzaro già c’è, cioè nella dimensione della pienezza di vita: è la comunità che deve cambiare mentalità.
È strano che esce questo morto, non c’è una parola, un ringraziamento, non va verso le sorelle che pure lo avevano tanto pianto. Ma il morto deve andare (l’evangelista adopera lo stesso verbo “andare” che ha adoperato per indicare l’itinerario di Gesù con il Padre). Ecco, quest’espressione dell’evangelista ci illumina sul senso della morte: la morte di un discepolo di Gesù non solo non interrompe la sua vita, ma lo introduce in una dimensione nuova, piena e definitiva dell’esistenza. La morte non allontana dalle persone, ma le avvicina, la morte non è un’assenza, ma una presenza ancora più intensa.