Durante il Tempo Pasquale, secondo ila riforma liturgica del Concilio Vaticano II, attuata dal Papa Paolo VI, leggiamo il Vangelo di Giovanni. Il quarto Vangelo infatti, meglio degli altri tre, si interroga sulla personalità di Gesù, prima della sua morte e anche dopo la sua risurrezione. In occasione dell’incontro con l’apostolo Tommaso, per fortificare la nostra fede, Gesù ha detto: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Giovanni 20, 29). E’ il nostro caso. Vedere Gesù con gli occhi della fede ce lo insegna il libro degli “Atti degli Apostoli”. Vi leggiamo le attività degli Apostoli, che rendono visibile il Signore, grazie alla loro testimonianza e alle loro azioni. Gli “Atti” quindi descrivono la continuità tra il Gesù storico, il Cristo Risorto e la Chiesa nascente.

Nella prima lettura di oggi si parla di Saulo (che diventerà Paolo in seguito, come si legge in “Atti” 13, 9). Egli ha avuto un ruolo importante nella crescita della Chiesa e nella diffusione del Vangelo fra i pagani (= i non Ebrei). In questa sua attività evangelizzatrice è stato sempre avversato dai Giudeo-Cristiani (= coloro che non volevano assolutamente abbandonare la Legge Mosaica, anzi volevano imporla anche ai convertiti dal paganesimo). Per fortuna il Concilio di Gerusalemme (Atti 15, 1-35) ha accettato l’azione missionaria di Paolo e ha riconosciuto l’universalità del Vangelo.

Il levita Barnaba, cipriota di nascita, appartenente alla comunità cristiana di Antiochia di Siria, si fa carico di Saulo, lo presenta ai responsabili della Chiesa di Gerusalemme. Ma Saulo, da nuovo convertito, si mette ad annunciare il Vangelo in greco. Visto il pericolo da parte dei Giudeo-Cristiani, Barnaba prende Saulo e lo accompagna nella sua città natale di Tarso (in Anatolia : Turchia attuale). Là andrà a cercarlo in seguito per condurlo ad Antiochia, dove Saulo riceverà dalla comunità cristiana (dietro suggerimento dello Spirito Santo) l’incarico di predicare il Vangelo ai pagani assieme al suo méntore Barnaba (Atti 13, 2-3). Per Saulo-Paolo il Cristo non può essere bloccato in una sola cultura ed essere il Salvatore del solo popolo di Israele. Egli è il Salvatore dell’umanità. Del resto Gesù stesso l’ha ripetuto diverse volte. Egli ha detto: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Giovanni 10, 16). E’ la parabola del Buon Pastore, e il suo significato è molto chiaro.

I discepoli infatti devono essere realmente in comunione con Gesù (meglio: uniti con Lui), se vogliono sperimentare la vita che Dio stesso dona, cioè la figliolanza divina. Tutto ciò è espresso dalla parabola che leggiamo nel Vangelo di oggi (Giovanni 15, 1-8), quella della vite/vigna.

Il biblista francese Marc-François Lacan ci spiega bene il significato della vite/vigna nella Bibbia. La Palestina, fino alla conquista araba del 638 (I Musulmani infatti non bevono vino e la vite serve solo per produrre uva che sarà consumata come frutto o come uva passa), era una terra di vigneti. La vite è un albero speciale che ha qualcosa di misterioso. Il suo legno non ha valore (Ezechiele 15, 2-5), i suoi tralci, dopo la raccolta dei grappoli, sono buoni solo per il fuoco; ma il suo frutto, diventato vino “che allieta dei e uomini” (Giudici 9, 13), è prezioso e ricercato. La vite quindi può, come immagine, manifestare un mistero più profondo. E ce lo spiega Gesù. “Io-sono la vite vera” (Giovanni 15, 1) ha detto il Signore. Nei tempi precedenti, nella storia di Israele, questa vite non dava frutti. Ma Egli sì; per questo sarà mondato, potato, nella passione della Croce. Il suo sangue versato, prova suprema di amore, manifesta l’obbedienza figliale e la fedeltà al Padre.

“Io-sono” è sempre il nome di Dio, quello rivelato a Mosè (Esodo 3, 14). In questo modo Gesù si dichiara di natura divina. Lo ha già fatto in altre occasioni. “Io-sono il pane” (Giovanni 6, 35). “Io-sono la luce” (Giovanni 8, 12). “Io-sono la porta dell’ovile” (Giovanni 10, 7). “Io-sono la risurrezione e la vita” (Giovanni 11, 25). “Io-sono la via, la verità, la vita” (Giovanni 14, 6), ecc. Per 26 volte nel Vangelo di Giovanni si trovano queste parole e 26 è la cifra che indica Dio (= nella Bibbia i numeri sono indicati con le lettere dell’alfabeto).

Noi siamo i tralci. Con questa metafora il Signore parla della sua unione profonda con quelli che credono in Lui, che Lo amano, che osservano le sue parole. Vite e tralci sono una sola pianta; hanno la medesima linfa e producono lo stesso frutto. Tutto questo, fuori di metafora, si riferisce all’Eucaristia. Infatti se uno mangia la carne del Figlio dell’uomo e beve il suo sangue, ha la vita eterna in lui e dimora nel Signore e il Signore in lui (Giovanni 6, 54-58).

L’unione dei tralci con la vite porta frutto. E questo frutto è l’amore. Noi, i tralci, formiamo insieme la Chiesa. Uniti a Gesù, portiamo lo stesso frutto: l’amore, che si fa servizio nelle opere di carità (Matteo 25, 31-46).

In questo amore concreto la Chiesa vive la vita di Dio e partecipa quindi della pienezza della sua gioia nella vita beata in Paradiso, in comunione con il Dio-Trinità.

San Daniele Comboni (1831-1881) pensava sempre a Gesù “vera vite”. A questa vite si sforzava con tutte le sue energie di innestare i tralci, cioè i popoli dell’Africa Centrale. Così scriveva nel “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, stampato nel 1871: “Un buio misterioso ricopre ancora quelle contrade… Il Cattolico, abituato a giudicare le cose al lume della fede, … ha scorto in quelle terre una moltitudine di fratelli.. Allora, spinto dalla carità uscita dal costato del Crocifisso, è pronto a stringere fra le sue braccia e a dare il bacio di pace a questi infelici suoi fratelli”.

P. Falaguasta Nyabenda

missionario comboniano
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