Prima lettura (At 10,25-27.34-35.44-48)
Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
Con l’ingresso di Pietro nella casa del pagano Cornelio (centurione romano – “uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutta la nazione dei Giudei” (At 10,22) – simpatizzante del giudaismo) inizia il processo di apertura del cristianesimo ai pagani. Per i primi discepoli era impensabile che un pagano potesse aderire a Cristo se prima, con la circoncisione, non avesse accettato la legge mosaica.
Il testo descrive l’incontro con Pietro, richiesto da Cornelio, dopo la visione dell’angelo, inviato dal Signore, che lo invita a chiamarlo per ricevere giuste informazioni. Pietro è ricevuto con grande attenzione da parte di Cornelio, che “gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio”, al punto che lo stesso discepolo lo rialzò dicendo: “Alzati: sono solo un uomo!”, perché tale comportamento spetta solo nei confronti della divinità.
Dopo aver preso conoscenza della visione di Cornelio, Pietro afferma: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone (…)” e sintonizza con la novità finora impensabile. Il comportamento dei giudei rispetto agli altri popoli è segnato da una divisione netta in due gruppi: loro e gli altri; la salvezza spetta a loro, in primo luogo, mentre gli altri accedono alla stessa solo dopo la conversione alla legge di Mosè e la circoncisione, segno dell’adesione.
“(…) ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Già Gesù si era comportato allo stesso modo nei riguardi di un altro centurione romano (il cui servo era gravemente ammalato), e del quale aveva ammirato la consistenza della fede come mai aveva incontrato in Israele. Evidente è che in quell’occasione Pietro non aveva compreso la portata dell’evento, pur accompagnato da Gesù.
Solo adesso – dopo la morte e risurrezione di Gesù e l’invio dello Spirito Santo – si rende conto di ogni cosa. In generale, e in tutti i tempi, il corso storico e il farsi di nuovi eventi sono opportunità per sorprendersi in merito alla portata dell’azione di Dio, che investe l’umanità nel mistero d’amore manifestato con l’evento Gesù Cristo.
Il fatto è molto importante per l’attualità. La rapida successione degli eventi, l’evolversi dei criteri di giudizio e dei comportamenti, esigono molta attenzione e discernimento alla luce del significato e della finalità della missione di Gesù. Perciò la fedeltà alla tradizione – aspetto importante della corretta azione pastorale – non è semplice ripetizione di quel che si è sempre fatto, o che è avvallato dalle norme consolidate, ma esige audacia, creatività e coraggio di sintesi nell’elaborare nuove risposte.
A conferma di questa intuizione accade che “Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola”. La Parola e lo Spirito sono le due mani dell’agire di Dio e, con esse, apre la mente e il cuore del credente alla comprensione dell’evento di cui è partecipe.
Per altro verso, “i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani fosse effuso il dono dello Spirito Santo”. Costoro compresero le nuove possibilità di comunione e fraternità, per la fede nell’unico Dio, delle persone in situazioni e contesti che mai avrebbero pensato che potesse accadere. È pur vero che Cornelio non è una persona qualsiasi ma uomo giusto, retto, timorato di Dio e stimato per il suo comportamento, ma è sempre uno straniero, un pagano.
Pertanto, anche oggi, in determinate condizioni di etica individuale e sociale, si apre la possibilità di un salto qualitativo della propria esistenza oltre ogni previsione o attesa. Di fatto i presenti, di origine giudaica, rimasero molto stupiti dall’accaduto.
Questo momento è un primo passo molto importante. Ci vorrà tempo e molte discussioni, vincere conflitti, superare resistenze estreme e, in alcuni casi, addirittura violente da parte dell’ambiente giudaico, prima che tale apertura si consolidi e diventi pacifica accettazione.
Le forti e tenaci argomentazioni di Paolo, e la reazione della tradizione conservatrice lo dimostrano. E Pietro, in tale circostanza, conclude: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo? E ordinò che fossero battezzati”.
Il comportamento etico, aspetto importante della personalità di Cornelio, è preparazione all’evento del battesimo. La pratica della giustizia, del diritto, della coscienza del proprio limite, e l’umile apertura a un “totalmente altro” da cui tutto proviene e in cui tutto converge, fanno di lui una persona già in sintonia con il Dio testimoniato da Gesù.
La comprensione del battesimo presuppone l’etica di cui sopra, che apre alla mistica nell’amore con cui siamo amati da Dio, come argomenta la seconda lettura.
Seconda lettura (1Gv 4,7-10).
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
“Carissimi, amiamoci gli uni gli altri”. Amore è una parola molto usata e, anche, abusata. Pertanto, è opportuno chiedersi, o domandarsi, cosa si intende, perché il termine si presta a comprensioni ambigue, per non dire contraddittorie.
L’esortazione si deve al “perché l’amore è da Dio” e, più ancora, “perché è Dio”. La definizione di Dio come “essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra”, memorizzata anni or sono dalle persone di una certa età e contenuta nel catechismo in preparazione alla prima comunione, metteva in ombra una verità fondamentale: che la realtà di Dio è il rapporto di lui con noi e viceversa, motivato e sostenuto dall’amore oblativo per la causa dell’avvento della sovranità di Dio, del Regno di Dio, nella quale coinvolge il destinatario.
Il creato è relazione d’amore del Creatore. È relazione non statica e puntuale ma dinamica e continua. Fra l’altro, la teologia afferma che la creazione è dell’ordine del rapporto, della relazione. Una volta che tutto è chiamato all’esistenza, è altresì mantenuto, sviluppato nel processo di crescita, per la relazione ininterrotta dell’amore, affinché tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10).
L’atto creatore di Dio è sostenuto dalla dinamica dell’amore che ri-crea, corregge, perdona, incentiva e motiva la stessa dinamica nel rapporto con gli altri, con la società, con l’umanità intera e con il creato. Coinvolgersi è condizione per conoscerlo: “Chi non ama non ha conosciuto Dio”.
È l’esperienza generata dagli effetti della morte e risurrezione di Gesù Cristo che sancisce la verità e la vita del suo insegnamento, l’adeguatezza e la bontà dell’avvento del Regno di Dio che indica il cammino da percorrere e la filosofia della vita quotidiana.
La pratica dell’amore è sorprendente forza generatrice: “chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio”. Il “chiunque” non si riferisce solo a chi professa la religione, ma ad ogni persona, dato che la dinamica dell’amore è patrimonio del genere umano in virtù della creazione.
L’esperienza di Gesù testimonia in cosa consiste la pratica dell’amore: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”. Inviare il Figlio nella realtà individuale e sociale che gli è ostile, per il cammino rivolto a riscattare le persone e l’umanità dalla morte, dall’auto-distruzione, dalla disumanità, dal vuoto di senso, dalla scelleratezza, dal disprezzo etnico-culturale, è motivato solo dalla magnanimità incommensurabile dell’amore.
Per raggiungere tale scopo il Figlio entra nel mondo come mediatore della comunione fra Dio e la singola persona e l’umanità tutta. Farsi uomo tra gli uomini è il modo di Gesù di rappresentare ognuno davanti al Padre. E il Figlio li rappresenta in primo luogo come peccatore, caricando si di sé gli effetti della sfiducia, del rigetto alla causa del Regno. E, in secondo luogo come redenti, per la determinazione, la tenacia e la resistenza di Gesù fino alla morte, a causa dalla travisata idea di Dio che Gesù ha fatto il possibile per correggere. In tal modo Gesù è il mediatore, “vittima di espiazione per i nostri peccati”.
È per amore all’umanità che sopporta, non si piega né retrocede dalla causa del Regno, cosciente che quello è l’unico cammino di salvezza “perché avessimo la vita per mezzo di lui”. Lasciata a sé stessa, l’umanità è incapace di amministrare la convivenza fraterna e solidale con realtà diverse l’una dall’altra. La seduzione del potere e del denaro soffoca ogni buon desiderio e rende impossibile il progetto della società più umana, fraterna e responsabile, capace di trasmettere a ognuno quello di cui ha bisogno per una vita degna.
La vittoria del rappresentante è la vittoria del rappresentato che, con lucidità e convinzione, accetta il dono gratuito in assoluta libertà. L’accettazione e la sintonia con il dono ha rapporto con la fede escatologica di Gesù, quale rappresentante che accoglie l’efficacia del rapporto che declina la purificazione, la trasformazione e il rinnovamento di sé stesso per la forza e consistenza attiva del rappresentato.
Perciò l’apostolo afferma: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”. Percepirsi amati suscita la risposta riconoscente dell’amore donato a favore di altri e dell’umanità, con attenzione all’etica e alla pratica delle beatitudini nell’accogliere l’avvento del Regno.
È il modo di rimanere in Cristo, come raccomanda il vangelo.
Vangelo (Gv 15,9-17)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
La raccomandazione di Gesù ai discepoli – “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” – sintetizza tutti i comandamenti e specifica che l’amore con cui ci ama non è altro che quello del Padre nei suoi confronti: “Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi”. Gesù ha trasmesso quello che ha ricevuto e nel quale si è coinvolto, senza “se” e senza “ma”.
Il “come”, termine di comparazione è un orizzonte sorprendente. Noi vediamo negli altri il compagno, il fratello, l’amico o, all’opposto, l’estraneo, lo sconosciuto, il nemico. Gesù, pur considerato dagli oppositori a cui si rivolgeva come estraneo, sconosciuto e pericoloso nemico, si è comportato nei loro riguardi come compagno, fratello ed amico, proponendo e indicando il cammino dell’avvento del Regno, verità e vita della loro salvezza individuale e sociale, personale e comunitaria.
Quello che lascia sorpresi e stupefatti è che nel “Verbo fatto carne” – la persona di Gesù – il Padre veda nel rappresentante l’uomo corrotto al massimo livello, il peccatore che ha rinnegato l’alleanza e, pertanto, un estraneo, uno sconosciuto, un nemico che, come tale, carica su di sé gli effetti della morte fisica e la degenerazione perversa della persona e della società. Ma, allo stesso tempo, lo vede come il figlio amato, in comunione di vita, di destino e solidale nello Spirito Santo, che lo accompagna e lo sorregge – come uomo tra uomini – nella missione redentrice di tutti e di tutto.
L’esortazione di Gesù – “Rimanete nel mio amore” – attesta la condizione del discepolo, reso figlio nel Figlio nell’assumere, e fare proprio, quello che Gesù sperimenta nel rapporto con il Padre a favore della persona e dell’umanità.
Gesù stabilisce le condizioni per rimanere nel suo amore – “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” – che rimandano alla verifica del proprio operato sulla base delle beatitudini enunciate nel discorso della montagna, e la costante vigilanza per non cadere nell’inganno e nella seduzione delle trappole tese dall’ambiguo vissuto giornaliero personale e sociale.
La finalità è la promessa di vita in abbondanza nel presente: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Essa riguarda l’obiettivo proprio della persona, necessariamente legata all’impegno di elaborare rapporti interpersonali, sociali e con il creato, nell’orizzonte del suo amore, in cui si è coinvolto.
Il coinvolgimento affranca il rapporto per il quale “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi chiamo amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Si apre al discepolo la via della conoscenza intellettuale ed esperienziale di Dio – la vita eterna – il destino dell’ultimo e definitivo.
Sorprende che tutto quello ritenuto frutto o merito proprio ha tutt’altra origine: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”. Il merito, se così si può dire è azione dello Spirito, che crea spazio e condizioni nel mondo interiore del credente che accetta l’accoglienza di Dio per gli effetti della morte e risurrezione di Gesù Cristo, previa la sintonia con la fede di Gesù assunta come propria per la causa del Regno di Dio
Tutto ciò avviene “perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”, per l’insegnamento e le opere connesse. La perpetuità degli effetti è testimonianza della qualità dell’amore. Al riguardo, le parole di Paolo sono illuminanti: “quando eravamo ancora deboli (…) Dio dimostra il suo amore nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6-8).
“Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri”. Notevole che non faccia riferimento diretto al Padre né allo Spirito. Con ciò risalta che nell’amore umano vicendevole, come Lui l’ha vissuto, è visibile, come in trasparenza, la filigrana del Padre e dello Spirito, e come tale amore è accessibile a ogni uomo di qualunque nazionalità, cultura o religione cui appartenga.