P. Romeo Ballan vive nella comunità comboniana di Casa Madre, a Verona. Mondo Aperto l’ha raggiunto per farsi raccontare il suo percorso di vita e quello che la missione gli ha insegnato in varie parti del mondo.

P. Romeo, quale è stata la tua esperienza missionaria?

Sono nato in un paesino della provincia di Padova e sono diventato sacerdote nel 1961. La mia prima destinazione è stata in Spagna e per 10 anni ho lavorato alla rivista Comboniana “Mundo Negro”. Dal 1972 al 1981 ho lavorato in Congo, nella diocesi di Isiro, e per sette anni sono stato Provinciale Superiore in Congo. Concluso questo servizio mi è stato chiesto di lavorare in Perù, a Lima, per dirigere un’altra rivista missionaria appena fondata ma che aveva bisogno di uno slancio e di crescere.

Nel 1991 ho contribuito a organizzare i contenuti di un grande Congresso missionario, il COMLA 4. Dal 1992 al 1994 ho svolto un servizio itinerante per far conoscere gli esiti del Congresso, visitando tutti i paesi dell’America Latina: questa è stata un’esperienza molto intensa. A Lima ho avuto l’opportunità di incontrare diverse volte Gustavo Gutiérrez, un uomo che ha sempre amato la Chiesa. Una delle espressioni che lui spesso pronunciava è: “credo in quello che la Chiesa come madre e maestra crede e insegna, prima ancora di credere nella sua teologia”. Sempre a Lima ho incontrato anche Madre Teresa, una donna centrata sempre in Gesù Cristo: il suo motto era “sitio” (ho sete). Dal 2001 al 2005 sono tornato in Italia come Procuratore Generale dei Comboniani presso la Santa Sede e contemporaneamente sono stato Direttore del CIAM (Centro internazionale di animazione missionaria). Dal 2013 al 2018 ho lavorato in Vietnam per accompagnare la fondazione di una presenza Comboniana, come parte della missione comboniana in Asia. E ora, per motivi di salute, ho chiesto di tornare in Italia.

Hai incontrato tante culture, che insegnamenti ti hanno donato?

In Sud America ci sono tre componenti culturali: quella indigena, quella europea – che è molto forte e in alcuni paesi la conquista è stata molto dura – e quella afro. La lingua è stato uno strumento essenziale per entrare in contatto con queste culture. Non ho mai avuto paura della diversità, che mi ha sempre arricchito e che ho vissuto sempre come desiderio di ricerca. Mi ha aiutato non guardare mai dall’alto in basso le manifestazioni delle varie culture: sono l’avvicinamento della stessa fraternità umana nella quale siamo chiamati a vivere.

Perché abbiamo paura quando le altre culture vengono nel nostro Paese?

Alla base c’è un grosso pregiudizio: questa gente viene a occupare il mio posto, a togliere il mio lavoro, questa gente mi dà fastidio perché il governo deve spendere dei soldi che loro non hanno prodotto e che sono il frutto delle mie fatiche. C’è un atteggiamento di chiusura e di rifiuto per paura.

Come si vive la Pasqua in contesti culturali così diversi e che significato ha per te?

La Pasqua viene vissuta in maniera corporativa e universale: vivere la stessa fede in contesti culturali differenti. Volti diversi che celebrano la stessa Pasqua come elemento di fede che unisce volti culturali diversificati. È il Cristo risorto, che dalla morte passa alla vita, come simbolo unificante: Cristo che vive in pienezza la vita e da Lui prende senso la vita di ogni persona secondo i volti culturali diversi. Pasqua come elemento di fede che unisce culture diverse e Cristo Risorto è il modello nella nuova umanità.

C’è differenza tra il vivere la fede in un contesto povero in Africa e in Europa?

Si, ho incontrato questa differenza, partendo dalla Passione di Cristo che tutti i popoli celebrano. In alcuni Paesi viene vissuta con più intensità. La gente povera si identifica più facilmente con Cristo della Passione e della Morte che non con il Cristo della Risurrezione. La fede però porta alla Risurrezione, che riscatta il dolore della passione. La fede non è eterea e la Risurrezione è redenzione dalle situazioni di povertà e riscatto sociale: la Pasqua è quel momento che rifonda i diritti umani delle persone. I temi della pace, della giustizia sociale e dei diritti trovano un nuovo fondamento nella Risurrezione di Gesù. Per questo l’evangelizzazione deve considerare la persona nella sua totalità: è redenzione dalle situazioni di povertà che sono situazioni di ingiustizia. I doni pasquali di Gesù risorto sono: la pace come mondo nuovo e migliorato, lo Spirito Santo che è il grande motore di rinnovamento, il perdono dei peccati come liberazione da tutto ciò che è male e la missione come annuncio di Cristo vivo per far vivere tutta la famiglia umana.

Che cos’è per te la missione?
La missione è come l’incontro tra due persone che sono ambedue povere, nella stessa condizione di fragilità, di impoverimento, di oppressione. La differenza tra questi due poveri è che uno ha la fede cristiana. Il cristiano dice all’altro: “tutti e due abbiamo freddo, io so dove andare per trovare un po’ di calore, andiamo insieme. Tutti e due abbiamo fame, io so dove trovare un pezzo di pane, qualcuno che ci accoglie. Tutti e due ci sentiamo soli, io so dove trovare qualcuno che ci accoglie”. È un contatto non come imposizione ma come offerta, come proposta: “vuoi venire? Vieni con me”. L’essere cristiano non ti fa più ricco o non ti risolve i problemi, non ti libera dalla malattia, dalla morte di una persona cara: c’è solo un modo diverso di vivere situazioni che accadono a tutti, avendo un punto di sicurezza esterno che è il Cristo risorto.