In questa 6° domenica di Pasqua ci viene rivelato il vero nome di Dio. Dal libro dell’Esodo sappiamo che Dio ha rivelato il suo nome a Mosè (Esodo 3, 14). Il nostro Dio non è il motore immobile dei filosofi, oppure il Dio creatore dell’Islam, a cui si deve sottomissione (Islam = sottomissione!). Diceva giustamente Blaise Pascal (1623-1662), scienziato e filosofo francese: “Il Dio della Bibbia non è il Dio dei filosofi  e degli scienziati, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il Dio di Gesù Cristo!”.

Nella tradizione biblica Dio è una persona che agisce nella storia e interviene per la salvezza del suo popolo. Arrivato Gesù, che ne è il Figlio, nato da una donna (Galati 4, 4), ci rivela pienamente la sua identità, chiamandolo Padre/Abbà, come nella preghiera del “Padre/Abbà nostro” (Matteo 6, 6), che lui stesso ci ha insegnato. Si arriverà infine, con la lettera dell’apostolo Giovanni, alla definizione più alta di Dio. Vi si legge infatti: “Dio è amore” (1 Giovanni 4,8).

Dio è amore: certamente. Ma si può dire anche: l’Amore è Dio. Esprimiamolo meglio: Dio/Amore si identifica con Amore/Dio. E questo perché la natura, l’essenza stessa di Dio è l’amore, la carità. Questa frase, con la definizione di Dio data da Giovanni, è una perla preziosa della Rivelazione e ne è anche il punto più alto.

Ma andiamo a interrogare ancora la Bibbia su questa realtà, guidati dal biblista francese Claude Wiéner. Prima di arrivare al culmine della rivelazione donando la definizione di Dio come “Dio è amore”, dobbiamo purificare le nostre concezioni puramente umane che abbiamo dell’amore. Infatti la parola amore designa una quantità di realtà diverse, carnali o spirituali, passionali o meditate, gravi o leggere, esaltanti o distruttive. La Genesi, la storia di Davide e soprattutto il Cantico dei cantici, tra molti altri passi della Bibbia, ci presentano ogni specie di sentimenti. A volte dentro c’è il peccato; ma vi sono pure  rettitudine, profondità, sincerità, generosità senza limiti. Ma tutto ciò utilizzando termini sobri e discreti. Però a volte ci si chiede: Dio, così grande, così puro può abbassarsi ad amare l’uomo, piccolo e peccatore? La Bibbia finalmente afferma con chiarezza che Dio ha preso l’iniziativa di un dialogo d’amore con gli uomini. In nome di questo amore, il Signore insegna loro ad amarsi gli uni gli altri. E questo è stato fatto in maniera mirabile da Gesù.

Domenica scorsa abbiamo meditato la parabola della vite (Giovanni 15, 1-8). Gesù è la vite, il Padre ne è il vignaiolo e i discepoli sono i tralci. Il Padre-vignaiolo “pota/purifica” i tralci/i discepoli. Anche Gesù ha lavato/ha purificato i piedi dei discepoli (Giovanni 13, 1-15).

“In questo è glorificato il Padre mio – ha detto Gesù: – che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Giovanni 15, 8). Portando frutto si diventa discepoli. Il frutto si vede nell’esercizio della carità. L’amore deve essere per forza  visibile. Questo amore visibile lo si capisce solo nel servizio e quindi nell’esercizio della carità, come Gesù stesso ha spiegato (Matteo 25, 31-46). Questo amore visibile è pertanto un atteggiamento concreto che si manifesta sempre in forme nuove di servizio, di collaborazione, di condivisione, di generosità, di accoglienza, di perdono, di attenzione, ecc. E questo all’interno della famiglia, nel mondo del lavoro, nella società, nella politica, ecc.

“Vi ho detto queste cose – parole di Gesù, – perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Giovanni 15, 11). Qual è il significato di questo annuncio? Il Padre ( ll vignaiolo della parabola) sa di che cosa abbiamo bisogno (Matteo 6, 8). Noi non dobbiamo preoccuparci di nulla. L’unica preoccupazione deve essere quella di portare frutto, cioè di amare sempre di più. In questa certezza (dell’amore del Padre) sta la radice della nostra gioia.

Giustamente Papa Francesco ha pubblicato l’esortazione apostolica, il 24 novembre 2013, con questo titolo: “Evangelii gaudium” (= la gioia del Vangelo). La nostra gioia non dipende dalle circostanze della vita, se le cose mi vanno bene o mi vanno male, se gli altri mi vogliono bene o non me ne vogliono. La nostra gioia si basa su questa esperienza: il Padre si occupa di me, perché ho deciso, per imitare Gesù, di occuparmi degli altri. Sentendoci amati da Dio, viviamo nella gioia.

Papa Francesco  ha scritto giustamente: “Il Cristiano non è mai triste, non ha una faccia da funerale… Siamo chiamati ad essere persone-anfore (piene d’acqua) per dare da bere agli altri” (Evangelii gaudium, n.86).

E tutto ciò per vivere l’unico comandamento lasciatoci da Gesù: “Che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” (Giovanni 15, 17).

San Daniele Comboni (1831-1881) ha consacrato la sua vita alla rigenerazione dei popoli dell’Africa Centrale, i più poveri, i più sfruttati e i più disprezzati del  Mondo. Per essi ha manifestato nel concreto la sua dedizione, il suo generoso servizio. In questo consacrava ogni minuto della sua vita e non perdeva nello stesso tempo la sua totale fiducia nella Provvidenza. Così scriveva al canonico Giuseppe Ortalda, da Scellal (Sudan) l’otto gennaio 1866: “Vorrei avere a mia disposizione cento lingue e cento cuori per raccomandare questa povera Africa a tutti i Cattolici del Mondo…. I Sacri Cuori di Gesù e di Maria bastano per superare tutte le difficoltà!”.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

missionario comboniano

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