La 4° domenica di Pasqua è chiamata anche la Domenica del Buon Pastore ed è anche la Giornata di preghiere per le vocazioni di persone che si dedicano al servizio del Vangelo e della Comunità Cristiana nella Chiesa. Questa Giornata per le Vocazioni è stata istituita da Papa Paolo VI nel 1964. Eravamo durante il Concilio Vaticano II e tutti i Vescovi riuniti a Roma sentivano il bisogno di invitare i Cristiani a pregare per avere “pastori” delle comunità cristiane secondo il cuore di Cristo e Religiosi/e veri testimoni del Vangelo.

Ma perché in questa Domenica  ci soffermiamo sulla figura del Pastore? Ce lo spiega Colomban Lesquivit, biblista e monaco degli USA. La figura del pastore era profondamente radicata nell’esperienza degli “Aramei erranti” (Deuteronomio 26, 5). “Mio padre – dice l’autore del Deuteronomio, mettendo in bocca a Mosè queste parole – era un Arameo errante”, riferendosi a Giacobbe, figlio di Isacco. Sappiamo tutti che Abramo era un pastore; suo figlio Isacco pure e quindi anche Giacobbe. I pastori dovevano spostarsi continuamente per assicurare i pascoli al loro gregge. La metafora del pastore che guida il gregge esprime due aspetti  dell’autorità esercitata dagli uomini su altri uomini. Il pastore è un uomo forte (1 Samuele 17, 34-37). Ma è anche un compagno che ha atteggiamenti di delicatezza verso i suoi subordinati. In Oriente i re si consideravano pastori del loro popolo; la loro autorità era fondata sulla devozione e sull’amore. Gesù si definisce “pastore” sulla scia della tradizione dell’Antico Testamento e soprattutto sviluppando gli insegnamenti dei Profeti. Nel Vangelo di oggi (Giovanni 10, 11-18) si parla di Gesù come il buon pastore e si parla anche del gregge, che siamo tutti noi. Ma forse le parole: pastore, gregge, ovile, pascolo, ecc. ci fanno pensare a una visione idilliaca, sdolcinata, come quando contempliamo il presepio nel tempo di Natale. Si tratta invece di una visione teologica, meglio messianica. Gesù è davvero il Messia, discendente di Davide, come predetto dai profeti (2 Samuele 7, 12 e Salmo 89, 30-38; ecc.).

Il quarto Vangelo è stato scritto verso la fine del primo secolo. La Comunità Cristiana in quel tempo si sentiva rifiutata dall’Israele ufficiale (= Il concilio di Yamnia, raduno dei rabbini più importanti nel 90 dopo Cristo, aveva scomunicato i discepoli di Gesù) e anche le autorità dell’Impero Romano guardavano la Chiesa con diffidenza. In quella situazione difficile, e questo vale anche oggi, la comunità cristiana deve attaccarsi con più forza e con più fede a Gesù, il nostro pastore. Il Vangelo di oggi lo definisce “kalòs” (= bello in greco; Giovanni 10, 11). Gesù è il “pastore bello”, perché vero, autentico, buono. Ma sant’Agostino (354-430), Vescovo di Ippona in Algeria, afferma che l’uomo segue sempre ciò che più gli piace, ciò che gli fa piacere. “Bello” vuol dire allora che stare con Gesù ci porta gioia e piacere. Pertanto definire Gesù come pastore “bello” ha senso, perché Egli dona la sua vita per noi, dimostrando così un amore senza limiti, perché egli guida il suo gregge alle fonti dell’acqua di vita (Apocalisse 7, 17). Solo così possiamo superare i momenti difficili personali e della comunità cristiana.

“In verità in verità io vi dico” (Giovanni 10, 7). La parola ripetuta indica un superlativo. Inoltre nel testo originale si parla di: Amen, Amen. L’Amen raddoppiato è una formula liturgica ebraica. E’ la trasposizione del discorso dei Profeti, prima del loro annuncio. In questo modo Gesù asserisce di essere l’inviato di Dio, secondo la tradizione profetica.

Per capire ancora meglio il Signore come “pastore bello”, bisogna rifarsi ai profeti, come Geremia (Geremia 23), come Ezechiele (Ezechiele 34). “Voi, mie pecore – dice il profeta Ezechiele, indicando Dio come il pastore di Israele, – siete il gregge del mio pascolo e Io sono il vostro Dio” (Ezechiele 34, 31). Gesù quindi è il pastore, secondo la tradizione profetica; porta al pascolo le sue pecore; la sera le conduce all’ovile, per passare la notte in sicurezza. Se ci riferiamo alla liturgia della sinagoga, l’ovile, al di fuori della metafora, indicava il tempio di Gerusalemme. Ma per il nostro Vangelo, il tempio della Nuova Alleanza è il corpo del Signore, cioè la sua umanità (raggiunta attraverso i sacramenti, specialmente l’Eucaristia). E’ lì il luogo del raduno universale delle pecore disperse. In questo modo si realizza la profezia di Isaia (Isaia 2, 1-4) che dice: “Alla fine dei giorni il monte del Tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti… e ad esso affluiranno tutte le genti”.

“Io sono la porta” (Giovanni 10, 9) ha detto Gesù per due volte. “Io-sono” è il nome sacro di Dio, come è stato rivelato a Mosé (Esodo 3, 6). Con questa espressione il Cristo si identifica con Dio, il Dio della rivelazione biblica. Ed è per questo che è stato condannato a morte. “Noi abbiamo una legge – dissero le autorità giudaiche a  Ponzio Pilato – e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio” (Giovanni 19, 7).

Grazie a Gesù, “pastore bello”, grazie a Lui che è la porta dell’ovile, possiamo uscire definitivamente dalla schiavitù del peccato e vivere come creature nuove, perché viviamo la figliolanza divina, essendo noi tutti fratelli e sorelle di Gesù, rifatti a nuova vita nel Battesimo (Romani 6, 3-11).

San Daniele Comboni (1831-1881) ha sempre lavorato per condurre gli abitanti dell’Africa Centrale nell’ovile di Gesù. Così scriveva nel suo Piano del 1871: “Gli Apostoli della mia Missione… non sottometteranno i popoli dell’Africa Centrale; ma a imitazione del Divin Pastore, porteranno sulle loro spalle quelle povere pecorelle e le porteranno in trionfo negli ubertosi pascoli della Chiesa”.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

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