Eccellenza come si svolge questa preghiera a Rumbek e come ci si avvicina alla Pasqua?
R . – Viene fatta per le vie cittadine con un gran numero di persone e con i giovani che si prendono cura delle stazioni, facendo dall’inizio alla fine una specie di rappresentazione dei personaggi della Passione. Quindi, Gesù con la croce e tutti gli altri personaggi che aprono il corteo della processione e nelle stazioni raffigurano quello che sta per accadere, mentre i lettori leggono i passaggi biblici. E davvero, tutte le persone, anche non-cristiane, partecipano a questa rappresentazione con grande commozione, tanto che vediamo anche persone che si battono il petto e che piangono e si lamentano per questa storia di Gesù che si ripete nella vita di questo popolo. Quindi, una preghiera che ha anche una grande forza di liberazione perché ci si identifica e si sente quanto la sofferenza di un giusto possa dare speranza a tante altre persone. E poi, concluderemo con la Veglia e Messa pasquale. Nella Veglia pasquale è molto bella la benedizione del fuoco perché cerchiamo sempre di benedire il fuoco nuovo, un fuoco che non è stato preparato in precedenza, ma viene fatto nascere proprio durante la liturgia attraverso il metodo tradizionale di strofinare dei bastoncini finché riesce a partire la scintilla per il nuovo fuoco. Ed è questo, quello che Dio è capace di fare per noi: dove c’è notte porta la luce, dove c’è morte porta la vita nuova.
Le immagini della Domenica della Palme a Rumbek sono entrate nel cuore di molte persone: una processione in cui Lei porta sulle spalle un bambino con in mano una canna…
R. – È stato un gesto nato spontaneamente. In Africa piace rappresentare e vivere gli eventi, e non di rado alle Palme si usa un asino alla processione, e il prete in groppa all’asino rappresenta Cristo. A Rumbek, però, non abbiamo asini e quindi l’anno scorso abbiamo fatto una semplice processione come siamo abituati anche in Italia. Ma mai come in questo momento mi sento un asino, chiamato al servizio a portare i pesi come Gesù ha portato i nostri, a portare sulla mia groppa questa diocesi e tutte le persone che sono ferite, scartate o derise. E quindi quando la suora incaricata della sagrestia mi ha detto che mancava l’asino, io le ho detto: “Non ti preoccupare, lo faccio io, l’asino”. E quindi ho sollevato un bambino e l’ho portato fino in cattedrale. Nessuno si è sorpreso di questo gesto perché qui si fa proprio così, quando una persona importante viene in visita al villaggio – non ci sono altri mezzi – lo si solleva sulle spalle e lo si porta. Così avrebbero fatto con Gesù, se l’ingresso a Gerusalemme fosse stato qui: l’avrebbero alzato, perlomeno i discepoli, e portato fin dentro la città. E quindi per la gente ha avuto un valore simbolico molto bello: un giovane ragazzo portato sulle spalle, simbolo della speranza di una comunità rinnovata.
R. – Credo che i frutti della visita del Papa siano stati davvero innumerevoli e si sono fatti sentire soprattutto nei giorni della sua visita e nei mesi a seguire, ma rimangono ancora oggi impressi nel cuore dei fedeli e di tanta popolazione del Sud Sudan. Ovviamente quei gesti, quei fatti per i quali il Papa ha chiesto non solo parole, rimane ancora un monito aperto che chiede l’impegno di tutti. Per questo, ad oggi io penso che i frutti più importanti di quella visita siamo noi, la gente del Sud Sudan, la gente di buona volontà che ha ascoltato le parole del Papa, che continua a pregare per la pace e non solo a pregare ma soprattutto a coltivarla nelle proprie famiglie e nelle proprie comunità, tanto da contagiare tutto il Paese perché la pace sia possibile, nonostante tutto. E questo lo si vede, perché nonostante le grandi ingiustizie che comunque permangono nonostante tante persone siano sfollate, nonostante la crisi economica in cui i poveri sono sempre più poveri nel senso che il valore della moneta è così basso che anche il lavoro non vale più quasi nulla e quindi le persone fanno fatica ad accedere ai servizi, alla sanità, alla scuola … Ecco, nonostante tanta povertà la gente comunque non si perde d’animo e non si dà alla violenza o all’ingiustizia, ma cerca di vivere e sopravvivere basandosi soprattutto sulla solidarietà gli uni degli altri. Penso che questa popolazione, così unita e così piena di speranza sia quella che potrà, un giorno, dare vita a un Paese non rovinato dai potentati, da chi detiene il potere, soprattutto quello delle armi, o il potere economico, ma un Paese che nasce dalla solidarietà che viene dalla popolazione umile e semplice.
Come la Chiesa sta contribuendo al processo di ricostruzione e di riconciliazione nel Paese?
R. – La Chiesa è accanto al popolo che soffre, infonde coraggio, speranza: non una speranza vana ma la certezza che il Signore è presente e accompagna. E lui che è stato schiacciato e crocifisso è risorto ed è principio della risurrezione nostra. La fede, quindi, non è un accessorio, ma un dono così importante per il popolo e per ogni cammino di salvezza. Quindi la Chiesa, alla predicazione e alla celebrazione, aggiunge anche il servizio che diventa un’azione così importante per far rialzare, mobilizzare e rendere le persone protagoniste di una trasformazione umana e sociale. Non parliamo solo della carità verso i più poveri, il provvedere ai servizi essenziali ma anche alla promozione di attività economiche per rendere le persone più autonome: pensiamo anche ai piccoli progetti agricoli che cerchiamo di sviluppare in tutte le nostre parrocchie. Formare le persone al senso civico, alla giustizia, alla pace; e non dimentichiamo l’istruzione nella scuola cattolica, dove coltiviamo la formazione umana integrale attraverso la valorizzazione di ogni bambino o ragazzo o giovane che si trova presso le nostre istituzioni. E questo è così importante in cui il giovane si sente invece messo da parte e magari manipolato dall’interesse di pochi, trovare la possibilità di esprimere tutta la propria ricchezza e tutti i propri sogni verso il futuro e cercare di raggiungerli.
Il Paese è ricco di petrolio eppure è tra i più poveri al mondo. Quali sono i passi da compiere per consolidare la pace e ridare al popolo ciò che gli appartiene?
R. – Non è garantito che dove ci sono risorse ci sia anche ricchezza. Purtroppo, il più delle volte la gente soffre maggiormente la povertà per la cattiva spartizione delle ricchezze. Il Sud Sudan non è povero perché mancano le ricchezze, ma perché manca la pace. La guerra in Sudan, poi, ha accentuato la crisi economica perché il governo del Sud Sudan contava quasi unicamente sullo sfruttamento del petrolio: ora l’oleodotto che passa per il Sudan è in parte danneggiato e il governo del Sudan non è in grado di garantire quei pagamenti al Sud Sudan che erano stati accordati in passato. Quindi la moneta locale perde ogni giorno di valore rispetto al dollaro, il costo della vita è molto molto alto e non c’è armonizzazione dei salari in un Paese dove comunque manca il lavoro, e dove c’è possibilità di lavoro comunque sembra non sia utile lavorare perché non si guadagna quanto serve per vivere. E quindi la gente si trova a vivere alla giornata, anche di esperienti, approfittando di quelle risorse che si possono trovare. Per consolidare la pace – sembra un paradosso – ci vuole la pace; la lotta alla criminalità e alla corruzione – che è una forma di criminalità – e sostenere l’impresa e la costruzione di un’economia che sia sostenibile a partire da attività economiche anche piccole: dall’agricoltura, l’allevamento, la pesca … Non solo lo sfruttamento delle risorse che sono usufruite e consumate, ma anche lavoro che generi altri tipi di risorse attraverso l’impresa stessa.
Quale è la sua preghiera, il suo augurio per questa Pasqua in Sud Sudan?
R. – Un augurio per la Pasqua: che sia un incontro con Cristo risorto, che ci liberi da ogni pessimismo e paura, che ci dia il coraggio di scelte di pace e di fraternità. Buona Pasqua!