Il conflitto che devasta il Sudan è quasi scomparso dai radar dell’informazione internazionale, oscurato dai fatti di Gaza e dal protrarsi della guerra russa in Ucraìna. Eppure informazioni diffuse nei giorni scorsi da fonti autorevoli lo descrivono come una delle crisi più gravi e preoccupanti del pianeta.
L’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM), parla di oltre 9 milioni di sfollati e rifugiati. OCHA, l’agenzia dell’ONU per il coordinamento degli interventi umanitari, nell’aggiornamento del 14 gennaio, dice che si contano ormai 7.4 milioni di sfollati interni, sparsi in 6.282 località di tutti i 18 stati in cui il paese è diviso dal punto di vista amministrativo. Solo nell’ultimo mese sono aumentati di oltre 600mila.
Quelli che hanno passato il confine dei paesi vicini sono circa 1.5 milioni: 502mila in Sud Sudan, 497mila in Ciad, 400 mila in Egitto, 44mila in Etiopia e 26mila anche nella Repubblica Centrafricana.
I bambini sono le maggiori vittime della situazione. Secondo dati dell’UNICEF, 14 milioni hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. Tra questi i 3,5 milioni sfollati, quasi la metà del totale. La chiusura delle scuole di ogni ordine e grado priva del diritto all’educazione 19 milioni di minori, mentre si contano migliaia di casi di abusi e di pesanti violazioni dei loro diritti.
Un’infografica pubblicata dal sito di Radio Dabanga descrive visivamente un paese in cui il conflitto è ormai dilagato ovunque causando spostamenti della popolazione in ogni angolo del territorio, tranne che nella parte settentrionale, ma solo perché è desertica.
In una situazione così frammentata è oggettivamente difficile organizzare i soccorsi. Ma nel documento citato si sottolineano anche altre circostanze: “In molte parti del paese le operazioni umanitarie sono complicate da insicurezza, saccheggi, impedimenti burocratici, rete e connettività telefonica limitate, mancanza di circolazione di denaro, numero insufficiente di personale tecnico e umanitario”.
Il documento di OCHA si chiude con un’ulteriore informazione: l’appello per rispondere ai bisogni umanitari in Sudan per quest’anno ha ricevuto finora finanziamenti per il 3,1% del totale necessario. Una riprova che le priorità della comunità internazionale sono altre.
In questi lunghi mesi, la violenza dei combattimenti ha colpito soprattutto i civili: 13mila i morti, secondo stime molto prudenti, a cui vanno aggiunte le altrettante vittime del conflitto in Darfur; abusi diffusi nei confronti di donne e bambini; ospedali devastati e personale medico attaccato, mancanza di cibo, di acqua potabile e di medicinali in molte parti del paese; case private requisite per scopi militari e beni razziati; quartieri residenziali bombardati; difficoltà perfino a recuperare i morti e a dar loro una sepoltura dignitosa.
Smantellati i comitati di resistenza popolare
In una situazione definita da esperti di emergenze come “catastrofica”, gran parte dell’aiuto alla popolazione è arrivato attraverso i mille rivoli delle organizzazioni di base locali, le uniche in grado di muoversi perché diffuse capillarmente e radicate sul territorio e tra la gente.
Dal 16 gennaio queste organizzazioni sono state messe fuori legge da un decreto del ministro degli affari federali del governo militare, di fatto di stanza a Port Sudan. Il decreto stabilisce anche che alla loro chiusura saranno congelati i conti bancari e sarà fatto un inventario dei loro beni. Misure che fanno prevedere una prossima confisca.
La disposizione riguarda in particolare i comitati formati dalle amministrazioni native e quelli nati dalla mobilitazione popolare che ha determinato la caduta del regime islamista del presidente Omar El-Bashir, come i gruppi legati alle Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC) e i comitati di resistenza.
Dopo lo scoppio del conflitto, il 15 aprile 2023, questi gruppi, che già agivano per tener viva l’opposizione alla giunta militare che dal 25 ottobre 2021 governa il paese, si erano trasformati in comitati di emergenza che cercavano di fornire servizi essenziali in un vuoto di potere che impattava in modo devastante sulla vita quotidiana della gente.
Erano letteralmente gli unici che svolgevano un lavoro di supporto alla popolazione, assicura Kholood Khair, analista politica sudanese.
La decisione ministeriale si appoggia su analoghe disposizioni di diversi governatori degli stati controllati dall’esercito (SAF) che nelle scorse settimane avevano sciolto i comitati di base locali affermando che collaboravano con i miliziani delle Forze di supporto rapido (RSF). Accuse respinte con fermezza dagli attivisti che sottolineavano come il loro impegno fosse esclusivamente sociale e volontario.
I comitati smantellati saranno sostituiti da gruppi composti al massimo da sette persone “politicamente non attive”, capillarmente dislocati sul territorio e approvati dalle autorità locali. Secondo gli attivisti democratici sudanesi, si tratta di misure per il controllo della popolazione e del territorio fomentate da esponenti del passato regime, gli stessi che sostengono la giunta militare e l’esercito nazionale.
Il giornalista Omar Emara, ad esempio, ha dichiarato a Radio Dabanga che il decreto è «puramente politico e senza basi dal punto di vista legale». Ha proseguito descrivendolo come «uno degli episodi della cospirazione contro la rivoluzione di dicembre (2018, ndr)», quella che ha dato inizio al movimento popolare che ha rovesciato il passato regime.
Sono dello stesso parere altri osservatori, secondo i quali “le direttive sono un indicatore del livello di controllo e predominio che i sostenitori del passato regime di El-Bashir hanno sul governo di Port Sudan e sui governi locali nel Sudan settentrionale e orientale». Il giornalista della BBC Mohanad Hashim, osserva che il decreto potrebbe essere un «grave colpo» per i comitati di soccorso e di emergenza locali e per l’attivismo di base in generale.
Resta da vedere se l’aiuto alla popolazione continuerà attraverso i canali indicati nel decreto. Si teme che potrebbero rivelarsi, piuttosto e soprattutto, un modo per controllare il flusso dell’aiuto umanitario e utilizzarlo per canalizzare il consenso e supportare il conflitto.
Bruna Sironi – da Nigrizia