Passi di santità
Nelle parole di Monica, ex-gimmina di Padova, l’esperienza di 3 giorni (8-10 novembre) passati assieme a Limone, con più di 120 giovani ex-gimmini da tutta Italia e con la gente stessa di Limone che ci ha accolto e accompagnato. Tutti insieme sui passi di santità di san Daniele Comboni.
“… Posso morire ma la mia opera non morirà…” Se ripenso ai giorni trascorsi a Limone sul Garda per festeggiare i dieci anni della canonizzazione del Comboni, non riesco a trovare parole migliori per definire l’atmosfera vissuta in quel week end.
Frequento la Famiglia Comboniana ormai da quasi cinque anni, prima come gimmina e poi come animatrice, ed ogni anno è stato importante per entrare sempre più in confidenza con la santità e la spiritualità di Comboni. Soprattutto con l’idea che siamo un popolo unico ed unito che è in continua migrazione ma che durante gli anni condivide speranze, ideali, sogni, preghiere e più di tutto passione.
Passione.
È la parola che più spesso mi viene in mente quando penso a quei giorni.
Quella di San Daniele, ad esempio, indissolubilmente legata alla sua santità. È stato l’amore viscerale per una terra lontanissima dalle sue montagne a muovere il suo desiderio, a render la sua opera duratura. E a richiamarci a Limone per far festa. Abbiamo celebrato tutti assieme la sua passione, il suo amore grande per la Nigrizia e per i crocefissi di tutta la terra. La cosa più grande, tuttavia, la cosa più stupefacente, è stato riconoscere in ogni persona lì presente, la stessa passione. Laici, padri, fratelli, sorelle, secolari, non importa il nome con cui si è scelto di far parte della Famiglia Comboniana, tutti noi condividiamo ancora lo stesso sogno: quello di testimoniare con la nostra vita ed il nostro annuncio in ogni angolo della terra l’Amore Perfetto che ridona dignità e si posa come un balsamo sulle ferite dell’umanità. A partire da noi stessi, cominciando dal comprendere qual’è la nostra Nigrizia, per quale popolo vogliamo spendere la vita, per quale ideale. Ognuno a modo suo.
Ascoltando le diverse testimonianze è stato illuminante riconoscere nelle persone che raccontavano il loro cammino, dei compagni. Non era importante che a raccontare fossero persone consacrate o famiglie, più volte mi sono ritrovata a pensare “questo è esattamente ciò che sento io, è quello che vorrei, è quanto mi è successo”, a testimonianza del fatto che non è la vocazione a formare il desiderio e l’essere umano ma viceversa, siamo noi, nella nostra libertà di Figli Amati a dover accogliere il sogno e dar vita alla nostra vocazione per diventare “santi e capaci”.
Sta per me in queste due parole l’eredità del Comboni. L’averci mostrato con la sua vita che finché si sta vivendo nella pienezza della propria vocazione è possibile lottare fino alla fine, certi che le nostre opere non moriranno, ma che condividendo la nostra vita e le nostre passioni con i tanti volti che incrociamo ogni giorno, siamo in grado di trasmettere la nostra eredità. Santi perché accogliamo e facciamo nostro il sogno di Dio, capaci perché immergendoci a piene mani nell’umanità diventiamo persone in grado “di contenere, comprendere e capire” l’altrui Verità.
Le esperienze di vita che sono state raccontate a Limone non hanno tutte un lieto fine. Ed è stato importante ascoltare storie di attesa, per non correre il rischio di scadere nell’autocelebrazione di chi è riuscito, o di essere tentati dall’idea: “siamo gimmini e quindi siamo bellissimi”. Siamo semplicemente e splendidamente esseri umani che condividono una storia e, come tali, abbiamo vittorie e sconfitte da raccontare. Perché quello che è importante raccontare è il cammino che ci ha portati alla consapevolezza di noi e degli altri, la responsabilità che richiama tutti ad abbracciare i momenti di difficoltà piuttosto che fuggirne.
Riconoscere i miei desideri e le mie paure fissando i volti e gli sguardi di uomini e donne di provenienze ed età differenti, mi ha fatta sentire amata. Perché se altri prima di me hanno vissuto le stesse cose che sto vivendo io e le hanno affrontate e ne hanno fatto bellezza, perche non io? Se qualcuno – e uno è sufficiente – è stato in grado di spendere tutta la propria vita inseguendo e aggrappandosi ad un Sogno, sopportando tutto perché rimetteva la sua vita nelle mani di chi tutto può, perché non io e perché non ora?
Essere ospiti nella casa e nella terra madre di colui che tutti abbiamo deciso di ospitare nella nostra vita mi ha fatta sentire pellegrina, poichè non esiste un vero punto di arrivo, ma piuttosto mille partenze.
Limone ci ha abbracciati con la sua accoglienza e noi abbiamo ricambiato con il nostro entusiasmo. Forse in alcuni casi abbiamo anche permesso al Comboni di tornare un po’ più a casa, perché molti cittadini erano fieri di raccontare che i loro nonni conoscevano Daniele, come a dire “appartiene a voi ma è anche nostro”. Come se il nome di Daniele generasse tra noi una sorta di parentela, una figliolanza rappresentata fisicamente durante la veglia al palazzetto, quando i Limonensi hanno racchiuso “gli ospiti” tra le ali della chiesa che la pioggia quella sera, rendendo irraggiungibile quella di mattoni ha voluto fosse costituita dalle donne, dai bambini e dagli uomini presenti. “Le mura della chiesa le faranno gli uomini” aveva risposto Padre Manuel alla mia domanda sul come “fingere” la chiesa nel palazzetto. Credo che Cristo avesse lo stesso progetto quando camminava in Galilea. Ed è stato davvero emozionante sentirsi accogliere ed abbracciare da chi parla con lo stesso accento di Daniele. Anche la pioggia ha avuto il suo ruolo quel giorno.
La Messa della domenica non ha concluso la Festa, piuttosto ha benedetto altre partenze. Quella Di Padre Manuel e Suor Tarcisia, ma anche tutti i nostri ritorni alle nostre Nigrizie.
Nulla di eclatante è successo in quei giorni, il mondo è sempre lo stesso, eppure qualcosa è accaduto.
Eravamo attesi a Limone, non solo dai suoi abitanti. Ci è stata data la possibilità di incontrarci, di conoscerci e sentirci membri unici della Famiglia Comboniana; di cantare, ballare, pregare e mangiare assieme, riscoprirci comunità, comunità itinerante.
L’eredità di San Daniele Comboni, la sua opera, è viva e cammina sulle nostre gambe, in Italia come in tutti i Sud e Nord del mondo. Il suo desiderio di avere mille vite da vivere per la missione, ha trovato compimento nelle nostre vite, perché più di mille sono le persone che hanno seguito la strada aperta da lui, una strada difficile che è partita da quella piccola chiesa, ai piedi di quella croce nera che ha salutato i nostri ritorni.