In che modo una narrazione riguardante l’Africa – che sia un articolo, un documentario, un reportage – può essere “etica”? Innanzitutto lavorando sui propri pregiudizi, quei bias, che colpevolmente, ma spesso così radicati da essere inconsci, influenzano quello che raccontiamo, come lo facciamo e, soprattutto, che tipo di reazioni provochiamo nei lettori.

La notizia positiva è che narrare l’Africa – le sue storie, i suoi protagonisti – in modo diverso è qualcosa che si può imparare. E prima di tutto, lo diciamo subito, dando voce e senso proprio ai protagonisti.

Quelli che troppo spesso restano nell’ombra di resoconti che – per esempio – esaltano il ruolo delle ong o delle istituzioni internazionali senza segnalare gli sforzi della gente comune, a cui magari di tanto in tanto si passa il microfono affinché confermino un plot narrativo stabilito a tavolino e non affinché liberamente dicano quello che vogliono dire.

E allora, per imparare a parlare d’Africa cominciando a riconoscere i propri bias, Africa No Filter (ANF) ha messo a disposizione un corso online.

Tempo speso bene, quello dedicato a questo corso – con quiz, verifiche e casi studio – perché è incredibile scoprire quanti atteggiamenti, modi di porsi e di lavorare siano dettati da convinzioni errate e che ci sembrano invece assolutamente normali.

Un approccio, quello dettato da questo corso, che non coinvolge solo giornalisti e media ma anche operatori umanitari, volontari, tutti coloro che in un modo o nell’altro si avvicinano alle comunità locali allo scopo di apportare benefici, progetti di sviluppo, “aiuti”.

Fatto è che avvicinarsi alle realtà africane – urbane, rurali, di certe categorie sociali anziché altre – dovrebbe prevedere non solo una conoscenza dei luoghi e delle situazioni ma la capacità di entrarvi privi di preconcetti e affidandosi per le mediazioni necessarie a persone della comunità stessa.

Creare relazioni, sapere come presentarsi, mettersi all’ascolto, portare del cibo da mangiare insieme … Ecco questo per esempio è un aspetto che può stupire e risultare poco idoneo quando vai a fare delle interviste, eppure è una questione di contesto, di culture, appunto.

E senza questa apertura mentale, la voglia sincera e reale di capire e non semplicemente di portare a casa un prodotto realizzato per il consumatore occidentale, non si farà alcun servizio alla causa a cui dichiariamo di essere votati.

Uno dei moduli del corso di ANF riguarda proprio il tempo (e la qualità del tempo) da investire sulle persone e poi su ogni singolo progetto – umanitario o di scrittura che sia.

Altro elemento a cui non si dà la dovuta importanza è il consenso. Vuole quella persona essere intervistata? Vuole essere fotografata? Ha capito (lo abbiamo spiegato?) in quale contesto tratteremo la sua storia?

Questo contributo aperto di ANF va nella direzione delle numerose attività di questa organizzazione nata allo scopo di sfidare, e quindi cambiare, le narrazioni pericolose che riguardano il continente.

Pericoli non metaforici ma visibili. Nelle relazioni sbagliate tra Nord e Sud del mondo. Nel perpetuarsi di luoghi comuni che generano contrasti e disuguaglianze a livello di rapporti privati e istituzionali. Nel generare false aspettative e nello stesso tempo amplificare atteggiamenti di onnipotenza e di potere. Ne potremmo aggiungere molti altri.

Cambiare richiede tempo, consapevolezza, ma anche studio, vale a dire voglia di capire. Perché altrimenti si rimane indietro mentre l’Africa non si ferma. Per citare ANF: Words matter. Stories matter. Narrative matter.

Antonella Sinopoli da Accra