Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

Con il Vangelo di oggi (Matteo 18, 15-20) entriamo nel quarto discorso che ascoltiamo dalla bocca di Gesù, secondo il primo evangelista. Sappiamo che Matteo vuole farci conoscere Gesù come il nuovo Mosè. Come Mosè che, secondo la tradizione, ha composto i primi cinque libri della Bibbia, così il Signore pronuncia cinque discorsi. Oggi inizia il quarto discorso, quello che riguarda le relazioni interne tra la comunità dei discepoli di Gesù (= Chiesa). Seguire Gesù non è facile. Richiede la conversione, una inversione a u, per intraprendere la strada che porta verso il regno di Dio. Ecco le prime parole di Gesù, secondo Marco: “Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Marco 1, 15). Lo possiamo e lo dobbiamo fare: convertirci e credere al Vangelo per diventare discepoli del Signore.

Il profeta Ezechiele ci aiuta a superare un traguardo importante per avvicinarci al Regno di Dio che sarà inaugurato da Gesù: “Il malvagio… morirà per la sua iniquità” (Ezechiele 33, 9). Cioè ognuno è responsabile delle sue azioni. Questa è una verità che ormai tutti accettano. Ma non basta. L’apostolo Paolo, rispecchiando l’insegnamento di Gesù, afferma: “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge” (Romani 13, 8). E poi aggiunge: “Pienezza della legge è la carità”. Ed è importante richiamare questa affermazione. Infatti nessuno vive da solo. Diceva Thomas Merton (1915-1968), monaco americano: “Nessun uomo è un’isola”. Viviamo sempre con qualcuno: in famiglia, nel lavoro, nel divertimento, nella società, nella politica, ecc. La comunità è l’esperienza fondamentale della famiglia umana. Ma ci sono delle difficoltà. Ecco che Gesù, nel suo quarto discorso secondo il Vangelo di Matteo, ci dona i consigli opportuni. Prima di tutto, secondo anche il profeta Ezechiele, è necessario riconoscere la responsabilità delle nostre azioni. Poi, se c’è la colpa, cerchiamo il ricupero e il perdono dell’altro. Soprattutto il perdono. Secondo l’etimologia, questa parola è formata da “per-”, che esprime abbondanza, e “-dono” da donare. Allora perdonare significa “donare al superlativo”.

E’ interessante sentire la riflessione del grande teologo san Tommaso d’Aquino (1225-1274) a questo proposito: “Nel perdono Dio esercita un potere superiore a quello della creazione, perché il dono per eccellenza è il perdono”. Noi pure nelle varie comunità (= famiglia, scuola, partito, lavoro, ecc.) siamo invitati a imitare Dio. Del resto, durante la Messa, noi diciamo la preghiera che Gesù ci ha insegnato e affermiamo: “…Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…”.

Il perdono è pertanto una condizione indispensabile per rendere possibile ogni nostra assemblea, ogni nostra comunità. Solo se ci perdoniamo, possiamo metterci assieme. E allora, secondo le parole di Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Se Gesù è presente, è presente il Figlio di Dio Padre, mediatore e autore della nostra salvezza.

San Daniele Comboni (secolo XIX) esigeva la pace nelle sue varie comunità di Missionari in Africa Centrale. E questa pace era ed è possibile se si è capaci di perdonarci a vicenda. Così scriveva a p. Giuseppe Sembianti, superiore del suo seminario a Verona, il 13 luglio 1881, a proposito di un suo missionario che lo aveva accusato ingiustamente: “Io ti (= don Losi) perdonerò sempre, ti vorrò sempre bene: basta che tu resti sempre in Missione e mi salvi, con l’annuncio del Vangelo, i miei cari Nubani in Sudan”.