Conversazione con p. Francesco Pierli, ex-superiore generale dell’Istituto comboniano.

Ho incontrato p. Francesco Pierli a Castel d’Azzano, la comunità comboniana che accoglie missionari fragili, bisognosi di aiuto. Il suo storico di professore universitario al Tangaza University College di Nairobi, per tanti anni, e il suo ruolo all’interno dell’Istituto – prima come assistente generale e poi come superiore generale negli anni ’80-90 del secolo scorso – sono sempre stimoli a riprendere i grandi temi della missione oggi. Riporto alcuni stralci della nostra conversazione.

Parlando di missione, sappiamo come la definiscono i documenti ufficiali della Chiesa. Ma tu come definiresti la missione oggi, dopo tutto il cammino che hai fatto nella direzione dell’Istituto e nell’insegnamento universitario?

Io la missione la vedo dentro l’evoluzione del mondo. Siamo all’interno di un mondo in costante trasformazione ed è importante per noi capire come il mondo si evolve per riorientarci in una visione cristiana all’interno di questo mondo che cambia. Perché si può guardare al futuro in senso molto negativo. Noi invece abbiamo una visione positiva del mondo. Il mondo va verso una pienezza che è sintetizzata nella risurrezione di Gesù Cristo. Abbiamo una visione del mondo evolutiva e trasformativa. Quindi anche i nostri contributi personali o istituzionali devono essere valutati a partire da questo movimento di evoluzione e trasformazione del quale siamo chiamati a essere parte.

E la missione comboniana?

Io credo che debba avere due aspetti. Prima di tutto la partecipazione a questo processo di trasformazione che, volenti o nolenti, comunque avviene; e che dipende da vari eventi storici, ma molto anche da noi, cristiani, che abbiamo un compito specifico di partire da Gesù Cristo e dal suo vangelo. Ne derivano due compiti molto importanti: quello di dare una visione positiva del futuro e dare orientamenti e piste per raggiungere questo futuro.

Quindi non più la missione geografica, la missione dell’800, ma un qualcosa che nasce prima di tutto dal capire dove il mondo sta andando.

Sì, non si può pensare la missione al di fuori del processo che l’umanità sta vivendo e che è sempre orientato verso il futuro. La missione avviene partendo dal contributo che ci dà il vangelo, che ci aiuta a capire gli aspetti positivi e negativi del processo stesso. La nostra fede offre strumenti e una visione che sono importantissimi, e forse unici, nell’orientare e nel partecipare alla costruzione dei processi che siano veramente positivi. Una trasformazione che non contempli la dimensione cristiana della vita e della storia sarebbe, a mio avviso, un disastro.

Noi, come Istituto, abbiamo sempre privilegiato l’Africa. Oggi lei è grande protagonista, anche all’interno del nostro Istituto. Abbiamo un grande contingente africano di giovani missionari e già una leadeship africana. Saprà l’Africa condurci verso questo tipo di missione che tu stai prospettando?

Nel passato noi ci sentivamo molto più protagonisti della trasformazione. Coscienti dei contributi specifici del vangelo, l’abbiamo portato in molte parti del mondo. Oggi colpiscono altre cose, come la varietà di esperienze religiose dove si vede la presenza dello Spirito e che possono arricchire molto il cristianesimo stesso. Se è vero che partecipiamo al processo di trasformazione e che siamo chiamati a farlo da protagonisti, è anche vero che da esso noi, in primo luogo, veniamo trasformati. In questa prospettiva dobbiamo vedere il protagonismo africano oggi, come una ricchezza che ci porterà a riconoscere aspetti finora rimasti ai margini dei nostri interessi.

Ma c’è una cosa: l’Africa non è più un continente che rafforza il mondo e la cultura tradizionale piuttosto che promuovere processi di trasformazione?

L’Africa, come attore della storia, è emersa dopo la II Guerra mondiale. Prima era oggetto della storia. Dalla II Guerra mondiale a oggi, soprattutto attraverso l’arte, la musica, lo sport e tante altre dimensioni della vita, emerge come soggetto che riesce a influenzare tutti gli aspetti della vita umana. L’Africa è cresciuta come soggetto in maniera esponenziale, certamente più dell’Europa, protagonista nel secolo passato, ma non più oggi.

Sì, ma secondo te, tutta questa energia spinge verso il futuro o ci riporta a un passato e a un mondo tradizionale che non ci sono più? E questo per il fatto che la cultura africana è molto legata alle tradizioni…

No, direi che la cultura africana è soprattutto legata alla natura e ai ritmi naturali della vita e dell’evoluzione. Noi, in Europa, abbiamo scollegato la storia dai ritmi naturali, con il risultato che abbiamo creato processi di morte e non di rinnovamento. Ci stiamo ora accorgendo che non si costruisce alcun futuro se si rompono i legami col passato. L’Africa ci aiuta a capire che il futuro è possibile, sì, ma solo a partire dalla solidarietà. L’Africa ci sta dicendo che, nonostante i problemi di carattere tribale che ancora ci sono nel continente, bisogna camminare insieme, promuovere l’unione dei gruppi e incorporando tutte le energie positive all’interno di una tradizione. La novità non può mai essere in contrapposizione col passato, ma dev’essere continuità ed evoluzione del passato. In questo senso l’Africa è più capace di noi di integrare passato, presente e futuro.

Quindi tu sei ottimista comunque. Anche in relazione all’Istituto comboniano?

In questo momento io non sono in grado di valutare l’orientamento che stiamo seguendo. In passato ha prevalso la linea europea, ma questa si sta esaurendo. Linee nuove che vengono da altri contesti hanno difficoltà di imporsi, ma stanno emergendo. Il futuro dell’Europa dipenderà dalla nostra capacità di lasciarci trasformare. Finora l’Europa è stata il motore della trasformazione del resto del mondo. Oggi la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di lasciarsi trasformare da tutto il movimento, che soprattutto grazie alle migrazioni, viene dal resto del mondo. Dobbiamo essere molto meno Europa e molto più mondo. Non siamo più centro del mondo.

E la Chiesa?

Dobbiamo avere una visione ottimista anche della Chiesa. Con il pluralismo delle chiese locali la Chiesa è tra tutte le realtà quella più di grado di percepire le diversità e di assorbirle. C’è un pluralismo di pensiero, di riflessione, di esperienze, nel mondo ecclesiale. La Chiesa sta diventando una comunione dei pluralismi che non c’era mai stata. Prima prevaleva l’uniformità. Oggi i pluralismi non sono più visti in contrapposizione con la comunione ma come complementi della comunione. Il pluralismo è parte della ricchezza della Chiesa.

Tutto questo è frutto del Concilio?

Molto è frutto del Concilio perché per la prima volta il Concilio ha fatto incontrare le varie diversità della Chiesa. Per la prima volta il Concilio è stata un’esperienza cristiana. Non soltanto cattolica, ma cristiana. Si sono recuperati valori che la Chiesa rischiava di perdere chiudendosi su sé stessa. Aprendoci al mondo protestante, siamo diventati molto più pluralisti. Aprendoci al mondo ortodosso ci siamo resi conto molto di più dell’importanza delle Chiese locali, con le loro caratteristiche. Non le caratteristiche di Roma, ma con le loro caratteristiche. In comunione con Roma, non contro Roma. Questo è stato un cambio tremendo degli ultimi anni.

Ma ci sono ancora molti passi da fare…

Sì. Ci sono due dimensioni: la Chiesa come vita e la Chiesa come struttura. La Chiesa come vita è molto più avanti ella Chiesa come struttura. La Chiesa come struttura è ancora molto legata a Roma, quindi a un centro dove ci si raduna, si verifica, si giudica, si decide e si accetta. La Chiesa come vita è molto più ampia e molto più ricca di quanto Roma riesca ad assorbire. A me però piace l’evoluzione che c’è nella Curia romana, il contatto col mondo protestante e tanti altri passi che si stanno facendo in varie direzioni. La Curia di oggi non è più la Curia di trent’anni fa. Pensa per esempio alla presenza delle donne, che oggi raggiunge il 30%. Cioè: anche all’interno della Chiesa, pur mantenendo la forza delle strutture, c’è un’evoluzione molto più grande di quanto noi pensiamo. Nonostante appaia ancora come una struttura monolitica e rigida, è molto più dinamica e aperta di quanto sia stata fino a pochi anni fa. La presenza della donna nelle strutture di coordinamento riflette la presa di coscienza che le donne sono la maggioranza dei cattolici, la maggioranza dei praticanti e la maggioranza del popolo di Dio. Per la prima volta ora non sono soltanto maggioranza in termini numerici ma anche in termini di riflessione, di contributo e di apporto. Per la prima volta la Chiesa comincia ad essere cattolica, maschile e femminile. E’ una conquista importante.

Grazie, questo ce lo dici nei giorni che antecedono la festa della donna. E’ un riconoscimento in più di quello che la donna rappresenta davvero in tutti i processi di trasformazione dell’umanità.

Giovanni Munari