Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

Il grido del profeta Geremia (prima lettura) colpisce le nostre orecchie ancora oggi: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Geremia 20, 7). Se si grida, lo si fa per qualcosa di molto importante, per quello che è essenziale per ciascuno di noi. Lo dice anche il biblista francese André-Alphonse Viard in uno studio del 1962, in cui sottolinea che il grido di ciascuno di noi riguarda appunto la vita. E’ la vita che ci interessa. E dov’è la vita? Il profeta Geremia lo ha capito ancora al suo tempo e lo cercava in Dio. Gesù poi aggiunge una riflessione che è ancora più inquietante: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Matteo 16, 24-25).

Questo tipo di riflessioni è stato fatto anche dal monaco Enzo Bianchi (80 anni), fondatore della comunità di Bose e maestro di vita cristiana impegnata. Egli afferma infatti, citando Padri della Chiesa d’Oriente: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio!” (Cosa c’è di là, p. 139).

Riflessioni simili le faceva anche l’apostolo Pietro, dopo aver proclamato la sua fede in Gesù, come Cristo e come Figlio del Dio vivente (Matteo 16, 16). E Gesù lo ha lodato, affermando che questa idea gli era stata fornita da Dio stesso, il Padre di Gesù. Ringalluzzito, Pietro, anche a nome degli amici, voleva indicare al Signore come doveva essere il Messia: un trionfatore, un vincitore, un domatore, che cavalca il cavallo (= il carro armato dell’epoca), come il re Davide, proprio un figlio di Davide. Ma Gesù lo blocca: “Mettiti dietro a me, satana (= satana è Pietro!). Mi sei di scandalo, perché non pensi come Dio, ma come gli uomini!” (Matteo 16, 23). Eccoci serviti. Noi pure siamo del parere di Pietro. Ma così siamo Satana, cioè non accettiamo il progetto di Dio. Gesù scaccia Pietro-Satana, come aveva scacciato Satana durante le tentazioni nel deserto (Matteo 4, 10). Il Signore poi, sapendo che il discepolo (= Pietro e noi tutti) ha ancora molte cose da imparare, lo manda dietro, cioè al suo posto: non davanti al maestro, ma dietro per ascoltarne l’insegnamento e poi metterlo in pratica. Dice san Paolo: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Romani 12, 2).

Allora è necessario mettersi alla scuola del Rabbi di Nazareth. Si tratta di avere una vita alternativa, come Gesù ci insegna e come Lui stesso la vive. Quale? Ci sono persone in mezzo a noi che vogliono a tutti i costi dominare la società, esercitando il potere con ogni mezzo. Costoro stanno in realtà perdendo la loro vita, non la salveranno, non sperimenteranno la felicità, alla fin fine si troveranno con un pugno di mosche.

E allora il grido del profeta Geremia che si sente afferrato dalla bontà di Dio? Lasciamo perdere, perché quello che vogliamo spesso è la realizzazione immediata dei nostri progetti. Ma non sono quelli di Dio. Dio però continua a chiamarci, a invitarci ad andare dietro a Gesù per ascoltarne gli insegnamenti e capire finalmente qual’è la nostra strada, sulla quale sperimenteremo pienamente la realizzazione della nostra vita. Cioè: prendere la croce per seguire Gesù. Questa croce non è la sofferenza, il dolore, la morte… Si tratta invece di abbandonare progetti egoistici di dominio, di violenza, di sopraffazione… Si tratta piuttosto di mettersi al servizio, per cercare il bene di tutti coloro che vivono su questo Mondo.

San Giovanni della Croce (1542-1591), poeta e maestro di vita spirituale, vissuto in Spagna, diceva giustamente: “Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore”. Del resto è quello che Gesù spiega nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del Mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Si dirà: “Signore, quando?”. E Gesù di rispondere: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. E qual’è la conclusione? Questo vale per la nostra vita, se portiamo la croce, come Gesù? Si tratta cioè di salvare la nostra vita, di realizzarla come ha fatto il Signore, donandola per amore. Infatti una vita ispirata dall’egoismo è già morta, cioè perduta per sempre. Imitiamo Gesù che sulla Croce ha manifestato di amarci fino alla fine (Galati 2, 20). La vera vita infatti è amore, donazione, generosità… è come lo Spirito Santo, che è l’amore reciproco tra Padre e Figlio. E’ questa la vita che non muore mai, perché Dio appunto è amore e l’amore è eterno (1 Giovanni, 4, 4). Vivendo così, diventiamo come Dio, entriamo in comunione con Lui: così saremo nella gioia, nella pace, nella festa, nella danza…., senza tempo, senza limiti, senza confini, nell’eternità, per sempre con tutti e con tutte le creature fatte esistere da Dio…

San Daniele Comboni (secolo XIX) amava la vita, una vita piena, felice, dignitosa, rispettata…. per sé e per tutti gli abitanti dell’Africa Centrale. Per loro lavorava e impegnava tutte le sue energie. Così scriveva al Cardinal Alessandro Barnabò, suo superiore, il 30 ottobre del 1859: “Voglia il Signore e la Vergine Maria, Regina della Nigrizia, rivolgere uno sguardo benigno sugli abitanti dell’Africa Centrale, che vivono ancora nelle tenebre e nelle ombre di morte. Per loro consacro tutte le mie energie e tutta la mia vita”.