Nel vangelo di oggi Gesù si trova ad affrontare la mormorazione dei farisei, i quali, considerando se stessi irreprensibili riguardo alla legge, erano inevitabilmente infastiditi dal fatto che Gesù trattasse amichevolmente i peccatori e accettasse di sedere a tavola con loro prima ancora che questi dessero segni chiari di un cambiamento di vita. Gesù, quindi, pronuncia una parabola che mette in luce come l’amore del padre non ci raggiunge dopo che ci siamo convertiti, quasi fosse una ricompensa al nostro sforzo di migliorarci, ma è all’origine di ogni cammino di ritorno a lui. Il padre della parabola “vede” per primo il figlio tornare perché non ha mai distolto lo sguardo da lui. Noi torniamo al padre non affinché ci ami, ma proprio perché ci ama, perché ci rendiamo conto che non ha mai smesso di amarci. In questa prospettiva è allora anche ovvio che nessuno può considerarsi giusto per sé stesso, per suo merito. Se, infatti, la conversione del peccatore dipende dall’amore del padre, anche ogni umana giustizia dipende dallo stesso amore che ci sostiene. Se il padre della parabola può dire al figlio: tutto ciò che è mio è tuo; allora ogni figlio deve poter dire: tutto ciò che è mio è originariamente tuo. Il peccato, dunque, esprime la disposizione distorta del cuore di chi crede di potersi procurare la vita da solo e quindi di poter fare a meno di un padre. La favola di Pinocchio è forse il racconto che meglio descrive l’ambiguità di una simile pretesa. Essa, d’altra parte, viene poi rafforzata dalla convinzione ingannevole che conservare la relazione con il padre significhi lavorare per lui, sacrificarsi, sottomettersi. Il figlio più giovane torna a casa per mettersi tra i servi e quello più anziano rientra dal lavoro convinto che con esso si sarebbe meritato l’apprezzamento del padre. Entrambi devono essere persuasi dal padre a rientrare in casa, non per fare i conti, ma per far festa. Per fare esperienza che la volontà del Padre è la gioia della comunione, la gioia che nasce dal vivere insieme, la gioia della paternità e della fraternita che vanno insieme. Il peccato è, in effetti, l’affermazione della propria individualità a scapito della relazione con Dio che è padre e quindi inevitabilmente della relazione con gli altri che non dovrebbero mai apparirci come estranei o rivali ma sempre come fratelli. Questa posizione radicalmente individualistica dipende dal fatto che la nostra persona entra nell’esistenza come un “corpo votato alla morte”, separato cioè dalla sorgente della vita che è appunto il padre. Questo getta un’ombra su tutte le cose perché fa apparire la vita come qualcosa di limitato, che quindi devo salvare ad ogni costo e possibilmente godere ad ogni costo. Tutti portiamo nel cuore la pretesa del figlio più giovane: dammi quello che mi spetta e lascia che me lo goda a modo mio. Una pretesa che in fondo era anche del figlio maggiore che voleva un capretto per far festa con gli amici del suo gruppo. Tutti alla fine facciamo esperienza di solitudine e del fatto che nessuno può darci quello che ci manca per soddisfare la nostra fame. Solo l’annuncio della resurrezione, cioè della possibilità che ci sia un padre che la cui capacità generatrice è così forte da poter tirare la vita anche dalla morte, può illuminare con una luce nuova la vita umana e far nascere il desiderio di un ritorno al Padre. Quando Dio introduce Israele nella terra promessa dice: “adesso l’umiliazione dell’Egitto è stata tolta”. Letteralmente essa è stata “rotolata” via come una pietra, come la pietra del sepolcro. Nella promessa della terra vi era già dunque la promessa della resurrezione, di quella nuova creazione, di cui parla S. Paolo, che fa nuove tutte le cose perché illumina tutte le cose con la luce della vita eterna. Sotto questa luce cominciamo a guardare noi stessi non più come un corpo votato alla morte, individuo isolato che cerca di sopravvivere, ma come un corpo chiamato alla vita divina, ad una dignità finale che supera quella iniziale perduta. Il figliol prodigo ricevendo l’anello al dito, non viene solo perdonato, ma rivestito della stessa autorità del padre. San Paolo non esita a sfiorare la blasfemia dicendo che il Padre ha voluto fare peccato colui che non conosceva peccato perché noi diventassimo la giustizia di Dio. Con l’incarnazione anche Gesù ha lasciato la casa paterna, con il consenso del padre, per sperperare ogni bene con i peccatori, in modo tale che, quando un peccatore rientra in sé stesso, non trova solo la propria solitudine angosciante ma qualcuno che è già con lui e suggerisce al suo cuore: mi alzerò e andrò da mio padre. Questo significa che, anche se rimaniamo ancora peccatori dobbiamo già vivere consapevoli dell’immensa dignità e preziosità che abbiamo agli occhi del padre, non ai nostri occhi. Solo allora ci convertiamo, cambiamo orientamento nella vita e invece di avviarci il più lentamente possibile verso la morte cominciamo a correre verso la luce.

 La più lunga parabola e la più incompleta. Nulla dice che il giovane sia stato toccato dal perdono. Nulla dice che il più anziano si sia lasciato convincere. È una parabola che non deve convincerti di nulla ma sconvolgerti. Una parabola che vuole cambiare la tua immagine di Dio e suscitare in tutti, buoni o cattivi, ma forse soprattutto nei buoni il desiderio della conversione, di ritornare al Padre.