Due sono i temi di questa Domenica. Il primo riguarda il nome più importante di tutti: il sacro tetragramma, composto da quattro consonanti ebraiche: YHWH, è il nome di Dio. La sua pronuncia è sconosciuta. Infatti gli Israeliti, per manifestare il loro rispetto verso Dio, al posto del sacro tetragramma (= quattro lettere), pronunciavano un’altra parola, di solito ADONAI, che significa Signore. Si usavano poi decine di altri nomi di sostituzione, per rispettare il nome dell’Altissimo. Solo il Sommo Sacerdote, nell’ultimo giorno della festa dello Yom Kippur (quest’anno ricorre il 2 ottobre), pronunciava il santo nome di Dio, entrando nel Santo dei Santi, nel tempio di Gerusalemme. C’era poi un’altra occasione e questo avveniva nelle famiglie. Quando il capofamiglia si sentiva vicino alla morte, chiamava il figlio erede della casa e nell’orecchio gli pronunciava il nome di Dio.
A causa di questo grande rispetto (uno dei 10 Comandamenti lo obbligava: Esodo 20, 7), la pronuncia del nome di Dio è stata dimenticata. Ci si è accordati di pronunciare il sacro Tetragramma così: Yahwè. Gesù stesso nei Vangeli non lo pronuncia mai. Il nome che ci ha raccomandato di dire è: Padre o, meglio, Abbà (= parola aramaica che significa: papà).
Nella Bibbia il nome indica la persona. Dio stesso ha voluto rivelare il suo nome e lo ha fatto per essere adorato (Esodo 3, 15). Prima di Mosè, a cui Dio ha rivelato il suo nome (Esodo 3, 14), Egli era conosciuto solo come il Dio degli antenati. Ma nel versetto 14 ci viene data una formula di difficile comprensione e anche di traduzione quasi impossibile. Dio ha detto a Mosè il suo nome. Ma noi ora così leggiamo: “Io sono colui che sono”. Ma questa è la traduzione della Bibbia dei LXX (fatta in greco, III secolo prima di Cristo) e della Volgata in latino (IV secolo, ad opera di san Girolamo). Dentro questa formula c’è già il pensiero della filosofia greca, per cui Dio è l’essere perfettissimo. Non è così. Intanto rivelandosi a Mosè, Dio si inserisce nella storia e quindi nel tempo che noi viviamo.
La miglior traduzione del nome di Dio, quindi del versetto in questione (= Esodo 3,14), ci viene fornita dall’Apocalisse. San Giovanni chiama Dio così: “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (Apocalisse 1, 8). Nell’Antico Testamento, lo sappiamo, Dio ha rivelato il suo nome a Mosè. Nel Nuovo Testamento, anche Gesù ci insegna il nome di Dio. Essendo Egli il Figlio, ai suoi discepoli parla del Padre (Giovanni 17, 6). Dio si è manifestato come Padre del Figlio (Marco 1, 11). Allora tutti coloro che credono in questo Figlio, fanno anche l’esperienza della paternità di Dio Padre (Giovanni 20, 17).
La nostra vita allora deve essere impregnata di questa fede.
Il secondo tema della Parola di Dio di questa Domenica è il seguente: il discepolo è chiamato a discernere il fermento che muove la sua vita. Il capitolo 12 del Vangelo di Luca è destinato a tutti gli uomini di tutti i tempi. E il capitolo 13, con alcuni esempi di cronaca, ci invita a scorgere in essi i segni dei tempi. Siamo chiamati cioè a vivere come figli di Dio, in tutte le circostanze, buone o cattive.
Allora qual è questo fermento che agisce nella nostra vita? E’ la paura della morte, che porta all’ipocrisia e all’accumulo delle ricchezze, che riteniamo àncora di salvezza (= idolo). Questo è l’aspetto negativo della nostra vita. E può essere anche una tentazione che Satana ci presenta dinanzi agli occhi. Il discepolo di Gesù invece sceglie sempre il timore di Dio, che porta alla verità e alla libertà dei figli. Tutti gli avvenimenti della nostra vita sono da leggere. Dobbiamo scoprire i “segni dei tempi”, dentro di essi, come insegnava Papa Giovanni XXIII (1881-1963).
Si deve escludere comunque una lettura manichea di ciò che accade: il male o le disgrazie da una parte, la fortuna o la grazia dall’altra. Bisogna invece scoprire il male che è dentro di noi e, con l’aiuto dello Spirito, arrivare alla conversione. Perché è sempre il male che è dentro di noi che provoca la violenza, le guerre, la sopraffazione, le ruberie, e tutto il negativo che è descritto dai sette vizi capitali.
Cerchiamo di capire inoltre dov’è il vero male. Il male non sono le disgrazie (leggi il Vangelo di oggi), la sofferenza, le storture varie, le malattie, la morte, ecc. Noi pensiamo subito agli innocenti che vengono uccisi, ai bambini che subiscono violenza, alle guerre, ecc. Il male è prima, è un altro. Il male sta in chi provoca le carestie, la povertà, lo sfruttamento, gli abusi, le uccisioni, la violenza, la guerra, ecc. E’ contro questo male che dobbiamo lottare. Cioè la vera lotta consiste nella conversione. Se noi diventiamo veri discepoli di Gesù, avremo sconfitto il male e avremo anche la certezza di vincere la morte con la risurrezione finale, per merito di Gesù il Cristo, come Egli stesso ha spiegato a Marta, sorella di Lazzaro (Giovanni 11, 25-26).
Il 15 marzo scorso abbiamo celebrato il compleanno di san Daniele Comboni (15 marzo 1831). Per i Missionari Comboniani è sempre una grande festa. Il 19 marzo poi abbiamo celebrato la festa di san Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria. Paolo VI (1897-1978) così ci parla di lui. “San Giuseppe è il modello degli umili che il Cristianesimo solleva a grandi destini. San Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci del Cristo non occorrono grandi cose; ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici”. Nel 1870 Papa Pio IX (1792-1878) ha proclamato san Giuseppe Patrono della Chiesa universale. E san Daniele Comboni ha sempre manifestato verso il padre putativo ( = secondo la legge) di Gesù una devozione speciale.
Oggi è anche la festa dei papà: tanti auguri.
Tonino Falaguasta Nyabenda
missionario comboniano – Vicolo Pozzo 1 – 37129 V E R O N A