Dopo aver annunciato la vittoria definitiva di Cristo sul peccato e sulla morte Paolo ricorda realisticamente che per noi il combattimento è ancora in corso. La morte, egli ricorda, è ancora operativa in noi finché è operativo il suo pungiglione che è il peccato. Esso, d’altra parte, non avvelena solo le azioni dell’uomo ma il suo cuore. È da esso, quindi dell’interno dell’uomo, che traboccano all’esterno bontà oppure malizia. Il frutto dipende da come è coltivato l’albero nel tempo e non da interventi superficiali. Analogamente la vita nuova del cristiano non è l’opera delle sue mani o della sua intelligenza ma l’espressione del suo cuore e della sua interiorità guarita Ma questa guarigione non è facile. Il Siracide ricorda che occorre portare alla luce, come fa il setaccio con il grano o il fuoco con la ceramica, le inconsistenze nascoste del cuore umano. E San Paolo aggiunge che occorre pregare perché la nostra fatica non sia vana, cioè puramente esteriore, farisaica, ma che raggiunga appunto il cuore. Gesù nel Vangelo, dunque, descrive tre condizioni per corrispondere a questa grazia ed evitare i pericoli che possono rendere vana la vittoria di Cristo in noi. La prima raccomandazione riguarda la disposizione a farsi discepoli. Chi vuole ricevere la luce di Cristo deve disporsi ad ascoltare, a saper imparare dagli altri e dalla vita, ad obbedire. Al contrario la tentazione sottile del bravo discepolo sarà sempre quella che di sentirsi arrivati per un piccolo progresso nella vita spirituale e quindi di poter fare da maestri. Nella comunità cristiana sono tutti discepoli ed uno solo è il maestro. I padri del deserto ricordano che nessun cavallo addomesticato può addomesticarne altri. Tutti dipendono da uno che li addomestica. Così nessun discepolo ne converte un altro attirandolo a sé stesso ma solo indirizzandolo al maestro. Quando infatti si parla di purificazione del cuore non siamo semplicemente ignoranti o disinformati. Siamo ciechi. Incapaci di guidare noi stessi. Ora può un cieco guidare un altro cieco? non cadranno entrambi nella fossa? Nessuno può far sbagliare un altro senza ferire sé stesso.? La prima grazia da chiedere è sempre quella di poter vedere la nostra cecità e il segno che si è davvero riconosciuta questa nostra radicale povertà è l’accettazione della correzione e delle critiche. Il segnale contrario è quello di chi, proprio perché non vede il proprio peccato, è sempre pronto a sottolineare quello degli altri. A tal proposito Gesù fa notare che, come il peccato acceca chi sbaglia, così il senso di giustizia acceca chi corregge. La forza del peccato, infatti, è data proprio dalla legge e quindi dal giudizio. Gesù, allora, insegna che, quando vediamo il peccato di un altro occorre scrutinare sé stessi finché non si è riconosciuto qualcosa di simile nella propria vita. Solo quando vedo in me il peccato dell’altro, solo allora sarò capace di passare dal giudizio alla misericordia e quindi sarò in grado di aiutare l’altro. Come una pagliuzza diventa trave avvicinandosi al mio occhio così essa ritorna pagliuzza ai miei occhi distanziandosi da me e avvicinandosi all’occhio dell’altro. Analogamente, nel correggere l’altro immagino di usare uno zoom che mi rende severo nel valutare i miei sbagli e misericordioso nel valutare quelli degli altri. Praticamente il contrario di quello che fanno gli uomini abitualmente. Un’ultima raccomandazione di Gesù riguarda il fatto che il discepolo si riconosce dai frutti e non semplicemente dalle opere. Egli, cioè nel suo agire esprime non solo bravura ma il carattere del fico e dell’uva, cioè la dolcezza e la gioia. Inoltre, proprio perché il bene e il male traboccano dal cuore dell’uomo, la guarigione del cuore esige che il discepolo abbia un unico tesoro nel suo cuore. Come non si raccolgono fichi dai rovi né si possono avere da uno stesso albero sia uve che spine, così non si può avere da un cuore buono sia il bene che il male. Quando il cuore è buono tutto l’agire della persona diventa buono. Non si tratta di diventare infallibili. Anche il giusto pecca sette volte al giorno. Ma il giusto quando sbaglia cerca il perdono non cerca delle scuse. Non posso concedermi qualcosa di male col pretesto che io faccio tante cose buone; concedermi qualche licenza nel campo della sessualità perché faccio tanta carità. Mille volte mi ritroverò a chiedere perdono per lo stesso peccato ma in nessun modo cercherò di trattenere quel peccato quasi fosse qualcosa di prezioso. Normalizzare un peccato qualsiasi significa fare del male un tesoro e quindi normalizzare la morte, perché il frutto del peccato è la morte. Contro ogni evidenza contraria, contro ogni scoraggiamento e normalizzazione del peccato continuerò a gridare con San Paolo: dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione? Tu puoi avere la mia sconfitta temporanea ma io ho la vittoria di Cristo che è per sempre.