In questa Domenica dobbiamo soffermarci particolarmente sulla vocazione/chiamata, che è rivolta a tutti e non solo a qualche privilegiato. Il profeta Isaia è stato chiamato e inviato. Ma prima ha gridato:  “Un uomo dalle labbra impure io sono!” (Isaia 6, 5). Anche i discepoli sono stati chiamati direttamente da Gesù, sulle rive del lago di Genezareth. Ma Simon Pietro ha esclamato:: “Signore, allontanati da me, perché sono un uomo peccatore” (Luca 5, 8). Dinanzi alla santità e alla verità di Dio, dobbiamo scoprire chi siamo realmente. Sia il profeta Isaia che Simon Pietro scoprono certamente di essere un recipiente, ma che contiene solo peccato, cioè fragilità e bisogno di misericordia. Davanti alla verità di Dio (e Pietro la scopre con il segno della pesca straordinaria) e al suo dono di una misericordia senza limiti, sia il profeta Isaia  che Pietro capiscono la loro verità e cioè la loro limitatezza e il loro egoismo. Solo così si può scoprire l’infinità di Dio. La si scopre contemporaneamente alla nostra infinita pochezza, al nostro peccato.

Ma siamo chiamati ad uscire dal nostro guscio, dalle nostre certezze, dal nostro considerarci al centro del Mondo. L’uomo (e la donna) moderno si definisce come il costruttore di se stesso (Genesi 3, 1-19). Già il celebre filosofo francese Cartesio (1596-1650) pensava il fondamento dell’esistente con l’affermazione del “Cogito ergo sum” ( e cioè l’io pensante è il fondamento della realtà). Del resto anche il Buddismo si avvicina a questa dottrina.

Ma torniamo sulle sponde del lago di Galilea. L’evangelista Marco pone la chiamata all’inizio del suo Vangelo. E poi la articola in tre momenti: la chiamata (Marco 1, 16-20), l’esperienza di Gesù come Cristo (Marco 3, 13-19) e infine la Missione (Marco 6, 7-13). Marco spiega in questo modo come questa chiamata/vocazione sia l’inizio della vita cristiana.

Per san Luca, prima ci deve essere il discorso inaugurale di Gesù (Luca 4, 1621), poi l’osservazione sulla potenza della sua Parola e il racconto dei suoi effetti salvifici (Luca 4, 21-41). Siamo sulla barca (è il Vangelo di oggi) e i discepoli faticano tutta la notte senza pescare nulla. Il lago di Galilea, come ogni specchio d’acqua, è per la Bibbia il luogo del Leviatan o la sede dei mostri marini (= potenze negative). Gesù infatti ha scelto una barca, che galleggia sull’acqua (cioè domina le potenze del male). E’ l’allusione diretta alla Chiesa, che per noi appunto diventa sacramento di salvezza e ci salva dalla morte certa, immersi come siamo nelle acque del male. Nella nostra vita, nel cammino della storia, se stiamo dentro la Chiesa, possiamo sperimentare la potenza della Parola del Signore.

“Conduci fuori al largo – dice Gesù, rivolgendosi a Pietro – e calate le vostre reti” (Luca 5, 4). E’ opportuno notare che il Signore si rivolge a Pietro, al singolare, ma poi passa al plurale. L’incarico di pescare (nell’intenzione di Gesù significa la Missione) deve essere comune a tutti gli Apostoli, e quindi al plurale. Ci siamo dentro anche noi. E’ bello, a questo proposito il commento di sant’Ambrogio (339-397): “Le reti che gli Apostoli calano sono l’annuncio fatto di un intreccio di parole come la proclamazione del Vangelo. E’ giusto che gli strumenti della pesca apostolica siano le reti: infatti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano in vita, lo traggono dagli abissi alla luce e dal profondo conducono alla superficie chi era sommerso nell’acqua”.

All’invito del Signore, Pietro risponde raccontando l’inutilità dei loro sforzi. Il fallimento dei pescatori è appunto la pesca infruttuosa. Ma ricevono lo stesso l’invito. E a loro sembra strano, e forse anche offensivo, perché sanno benissimo che si pesca solo di notte. Solo obbedendo alla Parola infatti, possono avere dei risultati straordinari. Non si deve imitare Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, ma piuttosto la Vergine Maria, che accetta che tutto avvenga secondo la Parola del Signore (Luca 1, 38). E la Vergine Maria allora diventa Madre del Salvatore. Così per la pesca di una moltitudine straordinaria di pesci (Luca 5, 6).

Chiamarono anche un’altra barca, e tutt’e due furono riempite di pesci, che quasi affondavano. Questa pienezza di pesci è simbolo della benedizione di Dio.

Le barche sembrano affondare, ma non affondano: è un’immagine della Chiesa, che aspetta tutti gli uomini per portarli alla salvezza. Quando Dio sarà tutto in tutti, come dice san Paolo (1 Corinzi 15, 28), esisterà allora il “Figlio” (= Gesù) “fino a raggiungere la misura della sua pienezza” (Efesini 4, 13).

Intanto Pietro e tutti i discepoli sono invitati a “pescare uomini”, a pescarli per la vita (Luca 5, 10). In effetti noi tutti siamo immersi nel mare, nell’abisso della perdizione, del peccato, dell’egoismo, della sopraffazione. I discepoli, e tutti i pastori e i testimoni del Signore, sono associati a questa pesca per salvare l’umanità, fino ai confini della storia e del mondo.

San Daniele  Comboni (1831-1881) era ben convinto della necessità della “pesca”. Per questo aveva concepito il “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, nel settembre del 1864 e vi resterà fedele tutta la vita. Così scriveva al suo Vescovo, il Cardinal Luigi di Canossa, nel dicembre del 1880: “Davanti a così spaventose calamità, il cuore del Missionario dovrà soccombere? Mai!… Il cuore del Missionario non retrocede mai dinanzi ai più fieri ostacoli… Egli marcia verso il trionfo del martirio… Come i nostri confratelli Missionari in Cina, che non si scuotono dinanzi alla morte e ai più spietati tormenti…

Noi affronteremo impavidi enormi sacrifici e la morte stessa per guadagnare alla fede le genti dell’Africa Centrale”.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

missionario comboniano
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