Risalta subito nella parola di questa domenica il parallelismo tra la predicazione di Esdra a Gerusalemme e quella di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Il primo offre al popolo, in un contesto di grande solennità e per tutta la mattinata, una lunga spiegazione delle scritture che si conclude con l’invito a far propria la gioia di Dio per il ritorno del suo popolo dall’esilio. Gesù a Nazaret, dal canto suo, si limita ad una breve lettura e ad un brevissimo commento che però annuncia qualcosa di definitivo e permanente: oggi quello che avete udito si realizza. L’anno di grazia annunciato da Isaia diventa nella predicazione di Gesù un avvenimento, una realtà presente e attiva che si realizza nell’oggi di quel giorno. Nazareth, in cui Gesù è stato allevato ed ha vissuto la sua quotidianità, si rivela come il luogo in cui accade la salvezza. Tutti nella sinagoga fissavano gli occhi su Gesù, attendendo di vedere come questa promessa si concretizzasse nella loro vita. Gesù però sposta la loro attenzione dicendo che la salvezza annunciata non si compie nei loro occhi, in ciò che vedono materialmente, ma nelle loro orecchie, cioè nel loro modo di ascoltare. Per l’ascolto infatti nasce la fede e per la fede ogni storia, ogni luogo della vita quotidiana, diventa un luogo in cui può accadere la vita eterna. Il vangelo raggiunge tutti gli uomini e ogni singola persona come Teofilo. Oggi e sempre chi ascolta fa esperienza del fatto che la fede trasmessa dagli apostoli, come dice Luca, ha una sua solidità. Non è, cioè, un peso da sostenere ma una base che sostiene la vita. Quei fatti che si sono realizzati nel tempo storico di Gesù e che Luca raccoglie in ordine non sono stati ingoiati dal passato. L’anno di grazia che Gesù annuncia a partire dal profeta Isaia si estende all’oggi di chi ascolta. Credere che le promesse di Dio si compiono nella nostra vita significa credere che “Dio è l’ipotesi positiva su tutto ciò che viviamo” (Giussani). Sul rapporto con la moglie, sul senso che uno dà allo studio e al lavoro, perfino sul valore della sofferenza e del fallimento. Quando entro nel mio oggi con questa certezza di fede mi accorgo che tutto può concorrere al mio bene, anche le cose che mi infastidiscono. Mi accorgo che le mie fatiche e i miei combattimenti non sempre ottengono i risultati che vorrei ma sempre possono espandere una libertà il cui compimento non è semplicemente in questo mondo. Credere che Dio sia l’ipotesi positiva su tutto ciò che vivo significa andare oltre ogni delusione ed ogni tristezza. Significa credere che la gioia di Dio può diventare la nostra forza di resilienza e speranza anche quando, nelle difficoltà e sofferenze, la nostra gioia viene meno. La gioia di Dio può diventare forza di vita nelle situazioni più drammatiche, per i cuori spezzati, per i prigionieri che anelano alla libertà, per i poveri che attendono il Vangelo ed anche per tutto ciò che io vivo. La gioia di Dio è una forza perché essa coincide fondamentalmente con il dono dello Spirito Santo. Quello Spirito che Isaia annunciava nella sua profezia si è posato sull’uomo Gesù che è stato allevato a Nazaret e per la sua morte e resurrezione riempie penetra ogni uomo in maniera così intima che il Padre può amare in noi ciò che ama nel Figlio e quindi Dio può amare noi come ama se stesso. Per questo San Paolo rimanda così insistentemente all’analogia del corpo. Se una parte del nostro corpo soffre, si indebolisce oppure è esposta alla vergogna, noi non pensiamo di eliminarla o disprezzarla ma ce ne prendiamo cura, la proteggiamo, la copriamo, perché amiamo noi stessi. Il mal di denti non è dei denti ma del corpo. E la sazietà dello stomaco non è dello stomaco ma del corpo. Analogamente la gioia e il dolore di un membro del corpo di Cristo sono di tutto il corpo e sono di Dio stesso che con il suo spirito lo abita. Come fa Dio con noi così dovremmo fare anche noi con gli altri ed imparare ad amare il prossimo come amiamo noi stessi. Per quanto ovvio possa sembrare questo principio divino, che è già iscritto nella nostra natura fatta ad immagine di Dio, fa fatica a trovare spazio nel nostro cuore perché questa nostra natura è ferita dal peccato. Per il peccato noi agiamo contro la comunione, in termini di individualismo, competizione, gelosia o rivalità e, senza rendercene conto, agiamo contro noi stessi perché il peccato genera solitudine e la solitudine genera tristezza. L’analogia del corpo ci ricorda costantemente che il compimento della nostra vita non può essere una realizzazione individuale, una riuscita, un affermarsi sugli altri. Il compimento della nostra vita è nella comunione. Oggi, per chi ascolta, si rinnova il lieto annuncio di Nazaret: lo spirito che era in Gesù vive anche in ciascuno di noi e ogni giorno risuscita in noi la gioia della comunione: andate, gioite e portate da mangiare a coloro che non ne hanno preparato.