La Domenica è la Pasqua della settimana. Il Cristo infatti è risorto il primo giorno della settimana e cioè il “Dies dominica” (= il giorno del Signore cioè la domenica).
Celebriamo la 30° Domenica del tempo ordinario. Ci mancano quattro domeniche per arrivare al tempo dell’Avvento. Allora passeremo dall’anno B all’anno C. E avremo l’occasione di meditare il Vangelo di Luca, che ci aiuterà a diventare veri discepoli di Gesù, per camminare con lui e raggiungere la meta del Regno di Dio.
Per questo abbiamo bisogno di vedere. Il testo di Marco (Marco 10, 46-52) ci racconta oggi l’ultima guarigione operata da Gesù, prima di entrare a Gerusalemme. Ed è la guarigione di un cieco. Del quale ci fornisce anche il nome: Bartimeo. Che vuol dire “figlio di Timeo”. Ma non in ebraico, bensì in aramaico, che era la lingua parlata dalla gente comune. Non dimentichiamo anche che Gesù era un “laico”, cioè era un popolano. Non faceva parte della casta sacerdotale, che dominava il paese assieme ai capi dei Farisei (= osservanti scrupolosi della Legge Mosaica) e dei Sadducei (= ricchi borghesi, collaborazionisti con il potere imperiale romano).
Questa domenica siamo invitati a scoprire (e a percorrere) la via della conversione, sull’esempio del cieco di Gerico. Già nella prima lettura il profeta Geremia (650-586 prima di Cristo) ci dice che “Il Signore ha salvato il suo popolo” (Geremia 31, 7). La storia della salvezza (cioè le iniziative di Dio per il recupero dell’umanità) va necessariamente verso la Pasqua del Signore Gesù. E allora Bartimeo diviene la nostra guida, in questo cammino di conversione che ci conduce alla salvezza. Già il fatto che il cieco di Gerico sia ricordato con il suo nome indica che il miracolo ha avuto una eco molto forte, se dopo decine d’anni (cioè all’epoca della scrittura del Vangelo di Marco) si ricordava ancora il suo nome.
Al tempo di Gesù, e in tutto il Medio Oriente, il nome indicava la funzione sociale e definiva la persona. Dare il nome o conoscere il nome (e pronunciarlo) dava del potere, dell’influenza e anche del dominio. Per questo il nome di Dio non veniva mai pronunciato. Neppure Gesù lo ha fatto. Fra tutti i popoli del Medio Oriente, il nome della divinità aveva molta importanza. Presso i Babilonesi, per esempio, il loro dio supremo, Marduk, aveva cinquanta nomi. Per i Musulmani, Allah è invocato con 99 nomi. Il Dio della Bibbia ha voluto rivelare lui stesso il suo unico nome. “Io sono ciò che sono” disse a Mosè (Esodo 3, 14). E Mosè poté dire: “Io-sono mi manda a voi!”. Allora il popolo dovrà andare nel deserto per adorare “Egli-è“.
Ma torniamo al nostro cieco di Gerico, di cui conosciamo anche il nome. Siamo a Gerico, una città antichissima (= esisteva già 8.000 anni prima di Cristo) ed è stata la prima città ad essere conquistata dagli Ebrei, nella loro strada verso la Terra Promessa. Non con le armi, ma con un’azione liturgica e la presenza dell’Arca dell’Alleanza (Giosuè 6, 1-16).
Il cieco stava seduto lungo la strada. E’ la strada che sale verso Gerusalemme. La strada, che è il luogo del movimento, diventò per lui il luogo dell’immobilità. Ci si trova di tutto, lungo la strada. Un poveraccio (secondo la celebre parabola raccontata da Gesù), che la percorreva, incappò nei ladroni. Ma ebbe fortuna, perché su di lui si chinò il buon Samaritano (Luca 10, 25-37).
Per scorgere il Salvatore, bisogna tenere gli occhi ben aperti. Ma non bastano quelli del corpo, ci vogliono gli occhi del cuore. Bartimeo era cieco, però sentiva e si rendeva conto che in mezzo alla folla c’era qualcuno di eccezionale. Conosceva le Scritture e sperava nell’arrivo del Messia/Salvatore. Aveva sentito parlare di Gesù come di un uomo straordinario e che era di Nazareth. Si rivolgerà a lui, non al “Figlio di Dio”, ma all’uomo Gesù. Chiamare per nome è già credere. “Figlio di Davide, Gesù – grida, – abbi pietà di me!” (Marco 10, 47). Il cieco sapeva che Gesù era discendente di Davide e sapeva che era il Messia. Però non chiese di essere guarito dalla cecità, ma di avere il perdono. La sua malattia, secondo le credenze teologiche dell’epoca, era stata causata dai peccati. Egli sapeva che la sua guarigione passava per forza attraverso l’ottenimento del perdono. Ma c’era la folla, che è sempre un ostacolo. Però il suo gridare è stato notato da Gesù che lo fece chiamare. “Chiamatelo!” disse. E’ sempre vero. Il grido del povero, di colui che vive nel peccato e sperimenta anche la punizione, ha il potere di arrestare Dio che passa. Lo dice anche il Salmo: “Quando ti invoco, rispondimi, Dio della mia giustizia! Nell’angoscia mi hai dato sollievo; pietà di me, ascolta la mia preghiera” (Salmo 4, 2). “Ti chiama!” gli dissero. Bartimeo scattò in piedi, gettò via il mantello. Abbandonare il mantello sembra una cosa facile. E’ invece un indumento indispensabile. Serviva per coprirsi la notte. Era come la casa per il povero. Il Deuteronomio dice che bisogna restituire il mantello al povero, che l’ha dato in pegno, prima del tramonto del sole (Deuteronomio 24, 12). “Che cosa vuoi che io faccia per te?” chiese il Signore. E la stessa domanda viene rivolta anche a noi, che ascoltiamo questo Vangelo. E’ la vera domanda, quella decisiva, se vogliamo la vita eterna. “Rabbuni – disse Bartimeo, – che io veda!” (Marco 10, 51). Rabbuni in aramaico significa “maestro mio”. Gesù è il maestro anche di tutti noi. “Che io veda!” deve essere la risposta.
Vedere il Signore è la vita dell’uomo. Siamo sempre inquieti, finché non arriveremo a contemplare il suo volto. Gesù in croce ha squarciato il velo del tempio che separava il Santo dal Santo dei Santi (Marco 15, 38), così ora noi possiamo contemplare pienamente Dio in mezzo a noi. E lo scopriamo come un Padre che ama.
Gesù risponde: “La tua fede ti ha salvato!” (Marco 10, 52). La risposta del Signore sembra fuori posto. Bartimeo domandava la vista. Il Cristo invece parla di fede. Per il cieco la salvezza è la vista, per Gesù piuttosto è il credere in Lui. Se uno ripone la sua fiducia in Gesù, sperimenta la salvezza.
Bisogna avvicinarsi al Signore e toccare la sua umanità, per essere salvati, come dice l’Apostolo Giovanni: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi … e che le nostre mani hanno toccato… il Verbo della Vita” (1 Giovanni 1, 1). Toccare l’umanità di Gesù significa avere accesso alla sua divinità.
Grazie alla fede, Bartimeo acquista la vista, ma soprattutto riceve la forza che lo spinge a seguire Gesù, per la Missione evangelizzatrice nel Mondo.
E’ esattamente quello che ci serve per vivere davvero il mese di ottobre, che è il mese missionario dell’anno. Domenica scorsa abbiamo celebrato la Giornata Missionaria Mondiale. “Andate e invitate alla festa tutti!” ci ha detto Papa Francesco nel suo messaggio. Infatti: siamo tutti missionari!
San Daniele Comboni (1831-1881) aveva una fede cristallina e solida, ma chiedeva nella preghiera di poter credere sempre di più e meglio, per poter annunciare il Vangelo ai popoli dell’Africa Centrale. Perché appunto “la nostra opera è basata sulla fede“. Così scriveva a p. Sembianti, il 13 agosto 1881. Due mesi dopo moriva di stenti a Khartoum (Sudan), fedele alla sua vocazione.
Tonino Falaguasta Nyabenda
missionario comboniano
Vicolo Pozzo 1 – 37129 V E R O N A