Prima lettura (Is 53,10-11)

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Quando offrirà sé stesso in sacrificio di riparazione,

vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

e si sazierà della sua conoscenza;

il giusto mio servo giustificherà molti,

egli si addosserà le loro iniquità.

 

Il brano presenta un breve passo di quello che, comunemente, è chiamato il “quarto canto del Servo del Signore”. Nella liturgia tutto il canto è letto il Venerdì Santo.

Il Servo è inviato non solo per ricondurre Israele al Signore, ma per coinvolgere tutte le nazioni nell’accogliere le esigenze e la dinamica dell’avvento del Regno di Dio.

Sono descritte le sofferenze e la passione del Servo, la cui missione è rigettata violentemente dalle autorità e dal popolo d’Israele, perché ritenuta falsa e deviante dalla volontà di Dio. Di conseguenza, ricade su di lui tutta la sfiducia e il disprezzo di coloro che rifiutano ascoltarlo.

Il testo inizia con un’affermazione sorprendente: “Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori”. Preso alla lettera il termine “piaciuto” sconcerta e lascia perplessi: è un’immagine ben lontana da quella che si attende da Dio. Tuttavia, nell’insieme si capisce che il senso non si esaurisce nella sofferenza e nel dolore, perché l’obiettivo è la giustificazione “il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità”.

Essa si compirà “Quando offrirà sé stesso in sacrificio di riparazione” (…) si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”. Riparare il danno, e pagare il debito altrui addossandosi “le loro iniquità”, è un evento esemplare di generosità gratuita, di autentico amore. Ma perché “prostrarlo con dolori”? È necessario? Non c’è altro modo di evitare dolore e sofferenze così grandi?

Da un lato la causa è il rigetto violento e drammatico nei confronti della missione del Servo; dall’altro è la tenacia e la determinazione del Servo di non cedere alla “loro iniquità” – alla scelleratezza e alla malvagità -, in modo da instaurare l’avvento del Regno, ovvero la società alternativa per la pratica del diritto e della giustizia nei termini dell’Alleanza.

Il rifiuto drammatico e violento del Servo da parte delle autorità e del popolo testimonia la forza sconcertante del peccato. Quest’ultimo, più che trasgressione del comandamento, della legge, è la perversa manipolazione dell’idea di Dio e delle esigenze dell’Alleanza a favore degli interessi della lobby che sostiene l’istituzione religiosa.

Il peccato è talmente seducente e poderoso che le autorità, e il popolo in generale, ritengono inganno, presunzione e pazzia la missione del Servo, al punto da ritenere che li avrebbe condotti a rinnegare Dio. Di conseguenza lo ritengono un senza Dio, e la pretesa familiarità con Dio del Servo è ritenuta sacrilega, meritevole del massimo rifiuto e il “prostrarlo nei dolori”.

Il Servo, coscientemente, carica su di sé gli effetti e le conseguenze della “loro iniquità” – del peccato – in termini di solitudine e isolamento, di rifiuto e di violenza fino alla morte. Non piegandosi al peccato rende vana la sua forza e lo svuota del suo potere. Paradossalmente la sua morte è la vittoria sul peccato. È la morte del peccato.

Orbene, con tale evento il Servo carica su di sé il peccato e rappresenta davanti al Padre ogni peccatore sottomesso al potere e alla forza del peccato. La determinazione, il coraggio, la forza e la resistenza del Servo, fino alla morte, non è solo la vittoria del Servo sul peccato ma, quale rappresentante del peccatore tramette, per la fede escatologica, “qui e ora” – nel rappresentato – la liberazione, la vittoria sul peccato e la nuova vita di persona redenta e partecipe della vita divina.

La vittoria sul peccato, per la quale il Servo è costituito “giusto”, è trasmessa e donata ai rappresentati. Oggettivamente essa raggiunge tutta l’umanità; soggettivamente è legata alla fiducia e all’accettazione del dono: infatti, “il giusto mio servo giustificherà molti”.

Il servo, immerso nell’amore del Signore, offre “sé stesso in sacrificio di riparazione”, e motiva la fiducia del credente nella salvezza. Nonostante senta su di sé la seduzione, il potere e la forza del peccato, sconfigge la sfiducia nella promessa e nell’azione del Signore. Con esso è redento il peccatore.

Perciò “vedrà una discendenza” nei giustificati e, paradossalmente, “vivrà a lungo”, in contrapposizione al sacrificio della sua vita. L’amore, motivo e sostegno della consegna, ha in sé il potere di una vita indistruttibile. In tal modo “Si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”, la salvezza sua e di tutti quelli che l’accolgono per mezzo suo.

“Dopo il suo intimo tormento”, di abbandonato dal Signore e da tutti, nel momento della massima debolezza, del dolore, della violenza fisica, “vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza” (la fede nella luce; ovvero l’evento mistico indistruttibile): la gloria eterna della comunione con il Signore. Il Servo non si piega al peccato, per amore alla causa del regno di Dio, cammino di salvezza dell’umanità e rigenerazione di ogni persona.

Nel credente il peccato, con la sua permanente seduzione e forza, è vinto per la ferma fiducia nel dono del Servo, che lo ha vinto nelle prove e nei momenti di oscurità del suo mondo interiore.

La seconda lettura riprende lo stesso tema.

 

Seconda lettura (Eb 4,14-16)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.

Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.

Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

 

Il brano si riferisce alla funzione indispensabile del sommo sacerdote nel giorno del perdono dei peccati della liturgia del tempo, giorno di penitenza e di digiuno, in cui la celebrazione liturgica culmina con l’assoluzione generale dei peccati del popolo.

Quel giorno è celebrato una volta l’anno. Nella liturgia solo il sommo sacerdote accede oltre il velo che separa il luogo santissimo – dove si ritiene che Dio appoggia i suoi piedi e è collegamento tra cielo e terra – dal resto del tempio. Il sommo sacerdote, dopo la rigorosa preparazione nei giorni precedenti, entra con grande timore alla presenza di Dio per celebrare il rito.

Il luogo del santissimo è una piccola stanza buia, chiamata tabernacolo, nella quale è depositata l’arca dell’alleanza del Sinai, distrutta secoli prima della nascita di Gesù con l’assedio e la deportazione a Babilonia. Con la ricostruzione del tempio, in essa sono collocate delle piastre d’oro puro che il sommo sacerdote unge con il pollice intinto nel sangue di animali sacrificati, e in tal modo sono perdonati i peccati del popolo.

Il Venerdì Santo, con la morte in croce di Gesù, la tenda che separava il tabernacolo dal resto del tempio si squarcia, segno che tale liturgia ha compiuto il suo tempo. Ora il sommo sacerdote è Gesù stesso, del quale il brano afferma: “abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio”. Con la sua morte è passato oltre la tenda che separa cielo e terra.

Egli non offre a Dio animali per l’espiazione, ma la sua vita; non sparge il loro sangue, ma il suo. È, allo stesso tempo, sacerdote e vittima, un’unione singolarissima e unica. Con ciò, Dio, fatto uomo, entra nel tabernacolo del cielo, alla destra di Dio Padre.

Cosciente della grandezza di tale evento, l’autore della lettera, esorta: “manteniamo ferma la professione della fede” in Gesù Cristo che solidarizza con i peccatori e prende “parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi (…)”. E sperimenta su di sé l’ampiezza e la consistenza della debolezza umana; soffre tutto quel che porta con sé in termini di limite, mancanza, insoddisfazione, ansia, inquietudine, vuoto e non senso, sconforto, stanchezza, dolori e ferite.

“(…) escluso il peccato”. Gesù nei giorni della sua vita terrena è turbato e sconvolto da situazioni e circostanze nelle quali “offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo da morte” (Eb 5,7). Non si tratta della morte fisica; quella è inevitabile (l’aveva preannunciata tre volte durante la missione; tre significa completamente, pienamente), ma della seconda morte a causa della seduzione delle tentazioni vissute nel deserto e sempre presenti fino a pochi istanti prima della morte in croce.

Nelle prove Gesù non ha mai perso la fiducia nel Padre e nella promessa dell’avvento del Regno per mezzo suo. La purezza e radicalità dell’amore per la causa del Regno lo ha sostenuto “per la potenza di una vita indistruttibile” (Eb 7,16). In tal modo “è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”, sconfiggendolo in virtù del binomio fiducia-amore.

Ecco, allora, l’esortazione dell’autore: “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia (…)” perché “Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù,” (Ef 2,6). Si tratta di accogliere con fiducia il dono degli effetti della sua morte e risurrezione per i quali il credente percepisce, nel profondo di sé, la comunione in Lui e con Lui e, con lui, la partecipazione nella gloria di Dio.

“(…) per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”. Quello che Gesù trasmette è il dono, ma non il possesso di disporne a piacimento. Il dono è reiterato nel “momento opportuno”, quando la debolezza e la vulnerabilità della condizione umana aprono il varco alle prove e alla tentazione.

Ecco attualizzarsi nel credente l’esperienza di Gesù (Eb 5,7), nel “ricevere misericordia e trovare grazia”. Sono momenti in sintonia con quello che Gesù disse a Simone: “ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31-32). La misericordia e la grazia permettono di evitare il peccato, venire meno alla fede e continuare a procedere nella via del Regno.

Sarà allora evidente la portata e il significato del vangelo.

 

Vangelo (Mc 10,35-45) – adattamento dal commento di Alberto Maggi

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».

Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Dio è amore che si mette a servizio degli uomini. E cerca uomini che lo accolgano, per fondersi con loro e farli diventare l’unico vero santuario dal quale si irradia il suo amore, la sua compassione e il servizio all’umanità.

L’ostacolo all’accoglienza di questo amore nei vangeli si chiama “ambizione”, “vanità” che, specialmente nelle persone religiose, diventano degli handicap. Infatti le rendono cieche e sorde all’annunzio del Signore. È quello che l’evangelista vuole insegnare con questo brano.

Nonostante il fatto che Gesù, per la terza volta (nel linguaggio biblico il numero tre significa “completamente, pienamente”) abbia annunziato qual è il suo futuro – la morte a Gerusalemme per mano del potere religioso e civile – due discepoli, Giacomo e Giovanni si avvicinano a lui.

In realtà non gli sono vicini, lo accompagnano, ma non lo seguono. Si avvicinano per cosa? Gli dicono: “Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”; e, quasi con arroganza, espongono questa loro esigenza. E cosa vogliono? Vogliono i posti d’onore. Gesù ha detto che a Gerusalemme sarà ammazzato, ma l’ambizione e la vanità rendono le persone cieche e sorde. Lo chiamano Maestro, ma non lo ascoltano. Vogliono i posti più importanti.

E Gesù li tratta da ignoranti, dice che non sanno quello che chiedono: “Potete bere il calice che io bevo”, il calice in questo caso è indice di sofferenza, di dolore, di morte, “o essere battezzati?”, essere immersi nella prova nella quale Gesù sarà sottoposto. E loro con arroganza rispondono: “Lo possiamo”. (E l’evangelista scriverà che al momento della cattura di Gesù “Tutti allora abbandonatolo fuggirono”).

Gesù afferma: anche voi passerete la prova che io passo, “anche voi berrete a questo calice” e sarete travolti da questi avvenimenti, ma in senso negativo. Infatti soccomberanno tutti quanti al momento della prova.

Ebbene, la richiesta dei due discepoli provoca l’indignazione degli altri dieci, non perché si scandalizzino, ma perché tutti ambivano agli stessi posti d’onore e quindi l’ambizione di pochi suscita la divisione nella comunità, divisione che può portare alla morte.

Allora Gesù li deve chiamare perché gli sono lontani, prende l’esempio dei governanti e l’opinione che Gesù ha di questi è molto negativa: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano”, cioè spadroneggiano, “su di esse e i loro capi le opprimono”, letteralmente impongono la loro autorità.

Ebbene Gesù per tre volte afferma: “Tra di voi però non sia così”. Qualunque imitazione delle strutture di potere, di obbedienza, di sottomissione, che esistono all’interno della società e vengono poi fatte rinascere nella comunità cristiana, vanno eliminate. Sono tutte sospette e non appartengono a Gesù e al suo messaggio.

Quindi questi rapporti tra superiori e inferiori, tra chi comanda e chi ubbidisce, non fanno parte della comunità cristiana. Gesù è molto chiaro: “Tra voi però non è così”. E aggiunge: “Chi vuol diventare grande (…)”, quindi Gesù ammette l’ambizione alla grandezza, che però si manifesta attraverso il servizio “(…) tra voi sarà vostro servitore”.

Servire, per Gesù, non diminuisce e non toglie la dignità dell’uomo, ma è ciò che gli conferisce la vera grandezza. Il servizio è quello che dà all’uomo la vera grandezza, se volontariamente esercitato per amore dell’altro, mettendo quello che ho a disposizione dell’altro per comunicargli vita.

E Gesù continua: “Chi vuol essere il primo”, quindi Gesù non esclude la possibilità per alcuni di essere il primo, ma nel senso che essere il primo significa essere più vicino a lui. “Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Lo schiavo in quella cultura, in quella società, era collocato al livello più infimo. Quindi Gesù ammette grandezza, ammette anche l’essere primi, ma come si arriva a questa grandezza, ad essere i più vicini a lui? Attraverso il servizio reso per amore agli altri e accettando di essere considerati gli ultimi della società.

Ed ecco la grande rivelazione di Gesù, in una cultura e in una religione, come in tutte le altre in cui le divinità pretendevano di essere servite dagli uomini: “Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

Questo è il Dio di Gesù, non è un Dio che chiede, ma un Dio che dona; non è un Dio che chiede agli uomini di servirlo, ma è lui che si mette a servizio degli uomini. E gli uomini che accolgono questo servizio, trasportati dall’onda di questo amore che si traduce in comunicazione di vita, di opere, si mettono anche loro a servizio degli altri, moltiplicando così l’azione creatrice del Padre.