La formazione degli Apostoli (e noi con loro) è per Gesù una priorità. I tempi sono stretti. La Pasqua si stava avvicinando.  E’ necessario capire veramente chi è il Cristo e credere davvero in Lui. Ma gli avvenimenti pasquali non basteranno. Anzi manifesteranno la realtà delle convinzioni degli Apostoli. Per noi pure, la vita ci fa capire chi siamo e che cosa siamo capaci di fare, nella nostra fragilità. Bisognerebbe invece cadere ai piedi di Gesù, come l’Apostolo Tommaso (= per noi un modello da imitare) che esclamò, manifestando la sua fede : “Mio Signore e mio Dio!” (Giovanni 20, 28).

Allora il Signore, per la terza volta e per far capire la sua vera missione, predice la sua Passione: “Ecco noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’Uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti… e lo uccideranno!” (Marco 10, 33-34). Le altre due volte si trovano sempre nel Vangelo di Marco al capitolo 8, 31 e 9, 31.

La prima lettura è del terzo libro di Isaia (autore del VI secolo prima di Cristo). Vi si parla del “Servo di Yahwè (YHWH = Dio), che paga il riscatto. In ebraico redentore/liberatore si dice “Go’èl”. Egli esercita cioè un diritto di “prelazione” e finalmente dona la libertà e la salvezza per noi peccatori, perché distrugge l’accusa e il giudizio di condanna è eliminato. Evidentemente è il caso di Gesù.

Nel Vangelo di oggi il Signore dice: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”(Marco 10, 45). Questa è la più bella definizione che Gesù ha dato di se stesso. Sintetizza in questo modo il senso della sua venuta e della sua esistenza.

Egli è per noi il “Go’èl”. Nella tradizione biblica infatti, quando una persona veniva portata in giudizio, per una colpa qualsiasi, doveva seguire la prassi prevista dalla Legge Mosaica. Se però uno dei giudici o una persona influente dell’assemblea si avvicinava all’imputato e si sedeva accanto a lui, il giudizio veniva sospeso e annullato, per le qualità morali della persona che interveniva. Gesù sulla Croce ha fatto lo stesso. Si è lasciato inchiodare accanto non solo ai due ladroni, ma a tutta l’umanità peccatrice. E ha chiesto che la condanna, che noi meritiamo per i nostri peccati, ricadesse su di Lui. Così ha realizzato pienamente il suo essere “Go’èl”, e cioè autentico liberatore/redentore. E questo per tutti.                                                “In riscatto per molti” è un ebraismo per dire totalità. Richiama infatti un passo del profeta Isaia, che dice: “Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini…” (Isaia 53, 11-12).

Ma queste riflessioni non erano nella testa degli Apostoli. Eppure l’Antico Testamento parla a lungo di questo aspetto della salvezza. Yahwè (= Dio) si manifesta come “Go’èl” non solo nel caso della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, ma anche per la fine dell’esilio babilonese (Isaia 43, 14; 44, 6.24; 47, 4 e Geremia 50, 34).

Si avvicinarono a Gesù i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni (Marco 10, 35), per chiedergli di stare uno alla destra e il secondo alla sinistra, al tempo della sua gloria. Nel Vangelo di Matteo si parla invece della madre dei due Apostoli che chiede un bel posto per i suoi ragazzi (Matteo 20, 20-21). Le madri, anche oggi, possono essere un ostacolo per la crescita spirituale e morale dei figli. A volte li considerano dei bambini, sempre bisognosi del loro aiuto nella realizzazione del loro futuro. I due Apostoli comunque Gesù li aveva definiti “Boanerges”, parola aramaica che significa: “Figli del tuono”, per indicare il loro carattere bollente, zelante e focoso. Ma Gesù li rimprovera e li definisce ignoranti. Però essi insistono e si dichiarano pronti a bere il calice e ad essere battezzati come Gesù.

Calice e battesimo sono immagini che riguardano il Cristo. Infatti il battesimo del Signore è il suo andare fino in fondo all’abisso, nella solidarietà con tutti i peccatori. Il calice è quello della croce, pieno dell’amarezza di tutto il fiele del Mondo e cioè dei peccati (Isaia 51, 17 e Salmo 75, 9). Questo calice non piace neppure a Gesù. Infatti al Getsemani il Signore, con timore e tremore, esclamò: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca 22, 42).                                                                                          “Possiamo!” esclamarono i due marpioni (Marco 10, 39). Evidentemente non avevano capito.

Nessuno può essere discepolo, partecipare al  martirio di Gesù, bere il calice come Lui,… per capacità umana. E’ dono dello Spirito Santo. Inoltre i veri posti di onore, non li dona il Figlio dell’uomo. Egli ci comunica piuttosto la sua umiltà di Figlio del Padre, che viene concessa a quanti si fanno piccoli come Lui.

Gli altri Apostoli, al sentire questi discorsi, si indignarono, non perché fossero d’accordo con Gesù, ma perché erano gelosi dei due, nel caso la loro richiesta fosse stata accettata. Per il Signore, al di sopra di tutto, nel Regno dei Cieli, conta la “diaconia”, cioè il servizio. Nel testo greco del Vangelo di Marco si dice: “diakoneo” che significa: prestare servizio liturgico. E’ quindi un servizio onorifico. Ma Gesù invita i due Apostoli carrieristi a convertirsi a una logica di servizio e, per  gli operatori pastorali, a una logica di ministero. “Chi vuol diventare grande fra voi – dice il Maestro – sarà vostro servo e chi vuol esser primo, sarà schiavo di tutti” (Marco 10, 43-44). Questa è la carriera che Gesù propone ai suoi discepoli ed è ancora quella che noi tutti dobbiamo intraprendere: essere servitori gli uni degli altri.

San Daniele Comboni (1831-1881) si è sempre considerato un consacrato alla Nigrizia (= popoli dell’Africa Centrale, i più poveri e disprezzati dell’epoca). Per gli Africani, il primo amore della sua giovinezza, il Comboni è disposto a donare non una, ma mille vite. Per essi è pronto a sacrificare tutto, affetti familiari, carriera, sicurezza economica, ecc. Così scriveva nel Piano redatto il 18 settembre 1864: “Ed ecco balenarci alla mente un disegno per la rigenerazione di quelle anime abbandonate, al cui vantaggio si appuntarono sempre tutti i pensieri della mia vita, e per le quali sarei lieto di versare il mio sangue fino all’ultima goccia”.

Il Comboni stesso poi riassumerà questo suo disegno provvidenziale con lo slogan: “Salvare l’Africa con l’Africa!”.

Oggi, 20 ottobre 2024, terza domenica di ottobre, è la Giornata Missionaria Mondiale. E’ la 98° volta che la celebriamo. E’ stata istituita dal Papa Pio XI nel 1926 e resa obbligatoria per tutta la Chiesa.

“Andate e invitate al banchetto tutti” è il titolo del messaggio di Papa Francesco, inviato per questa occasione. E’ tratto dalla parabola evangelica (Matteo 22, 1-14) che spiega come tutta l’umanità è invitata al banchetto, cioè alla comunione con Dio, Padre di tutti.

Noi pure, oggi, siamo inviati per far conoscere questo invito. San Daniele Comboni l’ha fatto nell’Africa Centrale. Noi dobbiamo farlo nella nostra famiglia, nell’ambiente del lavoro, nella società e dappertutto: tutti sono invitati al banchetto, cioè alla festa del Signore: Dio vuole che tutta l’umanità viva nella gioia e nella pace come una sola famiglia.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

Missionario Comboniano
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37129   V E R O N A