È una tentazione sempre attuale, quella di fare di Dio uno strumento dell’ideologia imperante. Nella storia del Cristianesimo spesso è successo. Per esempio al tempo delle conquiste di Carlo Magno (IX secolo) o delle Crociate (XI-XIII secolo) oppure al tempo delle guerre di Religione fra Cattolici e Protestanti (XVII secolo).
Attualmente l’Islam ce ne dà ancora un esempio eclatante. Più di 40 paesi nel Mondo hanno nella loro Costituzione l’aggettivo “islamica”. Del resto l’Ayatollah Khomeiny (1902-1989), autore della rivoluzione iraniana, diceva: “Se l’Islam non è politico non è nulla!”.
Allora per tutti i responsabili politici e per chi detiene una autorità è necessaria la “sapienza”, come ha chiesto il re Salomone per cercare davvero il servizio del popolo. Ma c’è sapienza e sapienza. Quella vera viene da Dio (Prima lettura di oggi). Ora c’è Gesù, Sapienza di Dio, Parola di Dio fatta carne (Giovanni 1, 14). Egli si è presentato ai suoi contemporanei come profeta, come Messia, servo sofferente (Marco 8, 29), dottore, ma non come gli scribi (Marco 1, 22). Soprattutto Gesù si presenta come un “maestro di sapienza”, come leggiamo nell’Antico Testamento. Imita i loro generi letterari (con i proverbi, con le parabole, con le immagini, con discorsi ripetitivi degni della letteratura orale). Propone anche regole di vita (per esempio con le Beatitudini). Ma egli supera tutti i saggi e tutti i profeti conosciuti nella tradizione giudaica. Tutto quello che Gesù dice e tutto quello che egli fa fanno intravvedere la personalità misteriosa del Figlio (Matteo 11, 25). L’Apostolo Paolo allora può dire: “Cristo Gesù, …per noi è diventato sapienza per opera di Dio” (1 Corinzi 1, 29). Gesù quindi a ragione è chiamato “sapienza di Dio” non solo perché la comunica agli uomini, ma perché appunto egli stesso è la sapienza preesistente in Dio suo Padre. Egli è il primogenito di ogni creatura (Colossesi 1, 15). Egli è l’artefice della creazione, lo splendore della gloria di Dio e l’impronta della sua sostanza (Ebrei 1, 3). Finalmente Gesù, il Figlio, è la sapienza del Padre e il suo Verbo fatto carne (Giovanni 1, 14).
È appunto quello che una persona (= un tale, dice Marco; un notabile, dice Luca; un giovane ricco, dice Matteo al capitolo 19 versetto 20) ha chiesto a Gesù. “Maestro buono” disse per indicare il superlativo e cioè: “Maestro buonissimo”. Siamo sulla strada, nel luogo dove la semente viene mangiata dagli uccelli (= cioè Satana: leggi Luca 8, 5) e non può portare frutto. Inoltre questo tale si mette a correre. A quei tempi nessun adulto si metteva a correre, perché era disdicevole. E poi si mise in ginocchio, come fosse un lebbroso. Finalmente l’evangelista Marco vuol dirci che questo giovane è posseduto da uno spirito immondo, quello della ricchezza tenuta per sé (Matteo 6, 24). Se è posseduto, è un impuro e non può avvicinarsi a Dio. Allora egli si rivolse al Rabbi di Nazareth, come si sarà rivolto e forse si rivolgerà ad altri Sapienti per poi scegliere la risposta migliore, quella che meglio gli converrebbe. Ma Gesù lo spiazza. “Perché mi chiami buono? – gli dice.- Nessuno è buono. Se non Dio solo”. Questo giovane uole avere degli insegnamenti che riguardano la vita eterna? Ci sono già: sono i comandamenti! (Esodo 20, 1-17 e Deuteronomio 5, 6-21).
Di solito i comandamenti erano presentati su due tavole. Sulla prima c’erano i tre comandamenti che riguardavano gli obblighi verso Dio. Sulla seconda quelli verso gli uomini. Gesù, citando i comandamenti, enumera solo quelli che riguardano il prossimo. Ma questi comandamenti non danno la vita. Per avere la vita bisogna amare il prossimo e farsi fratello di tutti, come ha fatto Gesù (Marco 12, 30-31). Alla risposta positiva del giovane ricco, Gesù posa il suo sguardo su di lui, “dentro”, perché entra nella profondità del suo cuore. Bisogna chiedere di vedere, come il mendicante di Gerico (Marco 10, 51). Ma questo giovane non lo fece. Eppure Gesù lo amò. E’ il centro dell’episodio. Lasciarsi prendere da questo amore è la strada per la vita eterna. E gli dà un consiglio: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri!” (Marco 10, 21). Solo dopo essersi liberati dal demonio delle ricchezze possedute per sé, ci si può avvicinare a Gesù. Solo allora si può seguire Gesù, infatti il primo comandamento, quello di amare Dio, si realizza solo con l’amore del prossimo. Inorridito (non rattristato, come nel testo di oggi!) per queste parole del Signore, il giovane è triste. Si ritrova pertanto un uomo fallito, anche se non ne è convinto; fallito perché incapace di amare Dio.
“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago!” dice Gesù, con un’espressione tipicamente orientale. Il cammello era l’animale più grosso in circolazione a quei tempi nel Medio Oriente.
I discepoli, a sentire il ragionamento di Gesù, restano sconvolti o meglio sbigottiti. Infatti la ricchezza, accumulata e non condivisa con i fratelli, ci separa dal Padre e dai fratelli e diventa “mammona” (Matteo 6, 24).
A questo proposito possiamo citare una frase di Papa Francesco: “Quando si propone una visione della natura come oggetto di profitto e di interesse… (essa) favorisce immense disuguaglianze e violenze per la maggior parte dell’umanità” (Laudato sì’, & 82).
Pietro allora, stupito per la sua scelta e di quella dei suoi compagni, esclamò: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito!” (Marco 10, 28). L’aver lasciato tutto era una sorpresa per Pietro e per i discepoli, e Gesù la conferma. Il Regno di Dio infatti è per chi ha lasciato tutto per amore del Signore. Si tratta di diventare, nella comunità di Gesù, non dei ricchi, malati di egoismo (= quando tutto è tenuto per sé), ma dei signori, cioè dei discepoli che sono capaci di condividere con gli altri i loro beni, come spiega brillantemente i libro degli Atti degli Apostoli. Vi leggiamo infatti: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola, e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (Atti 4, 32).
San Daniele Comboni (1831-1881) tutto quello che riusciva ad avere era per la Missione dell’Africa Centrale. Nella relazione storica sul Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, inviata a Mons. Luigi Ciurcia, il 15 febbraio 1870, così scriveva: “Alcuni Europei (presenti in Africa) guardavano con occhio cattivo i nostri Missionari, perché la loro presenza era un biasimo incessante e un rimprovero continuo alla loro condotta. Gli Africani avevano capito bene la differenza tra i Missionari e gli altri Europei, perché vedevano che la Missione, al posto di uccidere i poveri Neri, rubare i loro figli, i loro bambini e le loro mucche, asciugava sempre le loro lacrime, curava i loro malati, faceva loro del bene…”.
Tonino Falaguasta Nyabenda
missionario comboniano
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