Prima lettura (Sap 2, 12.17-20)
[Dissero gli empi:]
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Si tratta di un testo di grande attualità, elaborato della sapienza ebraica nella città di Alessandria d’Egitto, e scritto circa cinquant’anni prima della nascita di Gesù.
Il capitolo descrive il contrasto fra il giusto che teme Dio e si comporta in sintonia con la Legge e l’empio, il suo contrario. Non c’è un contrasto di idee riguardo Dio, ma alla condotta, al comportamento, ai rapporti interpersonali e sociali. E sono quest’ultimi che determinano la condizione di credente o di ateo pratico – non teorico – come diremmo oggi.
È descritta, con precisione, la distorta e perversa condotta dell’empio che si comporta come se la Legge non esistesse. “Dissero gli empi”, infastiditi e incomodati dalla condotta e dal comportamento del giusto, che “si oppone alle nostre azioni”, incluso il non associarsi e il distanziarsi da loro. Sono due mondi vicini, ma contrapposti.
Gli empi ricevettero la stessa educazione ma preferirono un altro genere di vita, contrario a quello del giusto. Di per sé, quest’ultimo è un continuo richiamo all’educazione, al comportamento che gli empi rinnegano, rimuovono e vorrebbero mai ricordare.
Costoro sono molto infastiditi della presenza del giusto che, per il solo fatto di esistere, “ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”. Il comportamento, accompagnato dal silenzio, è più provocante della parola e del richiamo verbale.
Lontani dal cambiare vita, sorge in loro l’avversione e un contrasto tale da essere avvertito come una seria minaccia alle loro convinzioni, al loro stile di vita e al loro agire. L‘avversione cresce fino a generare la determinazione di sopprimere il giusto.
È ciò che mettono in atto: “Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione”. L’intento è distruggerlo, fisicamente e moralmente, in modo da sopprimerne non solo la presenza ma anche la memoria, infangandola affinché non diventi martire, un modello per le generazioni future.
A ciò si aggiunge il sarcasmo della verifica sulla consistenza, bontà e mitezza del giusto provato dal tormento e dalla sofferenza che si ritiene tale. Ancora più audacemente, l’empio sfida addirittura Dio, dal quale aspetta la manifestazione, l’intervento a favore del giusto – ritenuto figlio di Dio – come insegna l’educazione ricevuta: “Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari (…) perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”.
Nella circostanza, l’intervento di Dio è la prova definitiva e irrefutabile. È inconcepibile, per il mondo religioso di allora, che Dio non intervenga a favore del giusto. Se ciò non accade, evidente è l’inganno del giusto o, più ancora, l’assenza o il disinteresse di Dio nei suoi riguardi. È il crollo di tutto l’impianto basato sulla Legge, sul merito e sulla retribuzione.
Per l’azione e la presenza del giusto, l’empio è il trasgressore della Legge che burla il giusto e, allo stesso tempo, sfida l’intervento di Dio, per il quale non nutre alcun interesse, se non la curiosità di prendersi gioco di Lui. Nella figura del giusto si riflette quella di Gesù, così come le reazioni di rifiuto.
I due mondi contrastanti – quello dell’empio e del giusto – sono in perenne opposizione. Il motivo del conflitto, e gli atteggiamenti dell’uno e dell’altro sono ripresi nella seconda lettura.
Seconda lettura (Gc 3,16-4,3)
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
L’empietà e la giustizia sono due modalità di vita accessibili ad ogni persona. Esse sono in netto contrasto fra di loro, sia che la persona partecipi o meno nella comunità credente o che appartenga ad altri gruppi o istituzioni. Fra l’altro, è nota la condizione di persone che, non partecipando della comunità, hanno una condotta irreprensibile di attenzione al bisogno di aiuto, di giustizia e altro.
L’apostolo ammonisce i membri della comunità: “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”, perché “manca la sapienza che viene dall’alto”. La gelosia sostiene il timore di perdere ciò che la persona possiede e genera nell’animo l’avversione, la violenza verbale e anche fisica al concorrente, ritenuto avversario. L’invidia è l’inverso: è l’avversione a chi possiede ciò che non si ha, non si può o non si è capaci di ottenere.
L’apostolo domanda: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?”, e afferma: “Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra alle vostre membra?”. Le passioni, finalizzate al godimento o al possesso, suscitano violenze di ogni genere. Ovviamente non tutte sono tali, ma quelle che lo sono hanno una grande forza distruttiva, un potenziale di violenza e addirittura di morte.
Di conseguenza, continua l’apostolo, “Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere, combattete e fate guerra!”. La seduzione è l’intenso desiderio di possesso, un veleno mortale per sé stesso e per i coinvolti, particolarmente quando si tratta di denaro, di eredità, di potere.
Possedere è dominio dell’oggetto, della persona, della famiglia, della collettività… e altro. È il contrario del dono, che conforma il rapporto fraterno, l’amicizia, la familiarità, la fiducia reciproca nell’orizzonte della bellezza, del sentirsi bene, della gioia di vivere.
Il rapporto autentico con Gesù Cristo lo si vive solo nel donarsi vicendevolmente. E il dono è gratuità, senza nessuna pretesa di risposta o di ritorno. È noto che lo scambio è il primo gradino verso il possesso, che svuota la potenzialità e il fascino del dono, dell’amore, della sua purezza divina.
Ebbene, il dono coinvolge donatore e destinatario nel liberarsi dalla negatività del dominio e della passione, nell’infondere vita e gioia. Gli attori autentici del dono mai attivano il possesso a loro favore per acquisire e disporne a piacimento. Il modo per conservarlo e crescere è trasmetterlo nella gratuità, in modo da coinvolgere il destinatario nella stessa dinamica.
Il possesso, il potere, ha immediatamente conseguenze deleterie che oscurano, rendono impercettibile e stravolgono l’elemento costitutivo e fondante: l’amore, il cui compimento è il mandato di Gesù: “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 15,12).
Dio è amore, e perciò gli effetti del possesso svuotano e sviliscano il rapporto con Lui. La conseguenza è il vuoto, l’insoddisfazione, l’isolamento, l’illusione e la perdita del senso della vita. Tale rapporto incentiva conflitti e sentimenti di avversione, nel sostenere lotte fratricide e guerre. È nota l’avversione di Dio al riguardo. Tuttavia la misericordia sempre prevale e offre opportunità di rigenerazione in virtù del suo immenso amore.
L’apostolo traccia la via d’uscita: “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare le vostre passioni”. È importante chiedere, ma chi già possiede o ritiene di possedere non chiede, difende gelosamente quel che ha timore di perdere.
Chiedere, nell’orizzonte della “sapienza che viene dall’alto”, il dono di donarsi per il bene di altri e della collettività è esperienza della sapienza “pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera”. È allontanare la tentazione, il dominio e la schiavitù dalle passioni, finalizzate ad interessi personali o di lobby, e motivo di “ogni sorta di azione cattiva” posta in atto per raggiungere l’obiettivo proposto.
La passione per il dominio e il potere è la più tenace e pericolosa tentazione del credente e di ogni persona. Da essa Gesù pone in guardia i discepoli, come insegna il vangelo.
Vangelo (Mc 9.30-37) – adattamento dal commento di Alberto Maggi
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Gesù di nuovo annunzia, per la seconda volta, la sua passione ai discepoli e ogni volta è occasione di scontro e di incomprensione.
“Partiti di là, attraversano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse”; il motivo consiste nel fatto che i discepoli hanno un’idea sbagliata, pensano che il Messia vada a Gerusalemme per conquistare il potere e, allora, Gesù non vuole che le persone si facciano anch’esse quest’idea sbagliata.
“Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno (…)”. L’espressione “Figlio dell’uomo” indica l’uomo che ha condizione divina, l’uomo con lo spirito divino che raggiunge la pienezza della sua umanità, in contrasto con gli uomini che non hanno raggiunto la maturità della vita e lo uccideranno. Gesù è il Figlio di Dio in quanto rappresenta Dio nella sua condizione umana, ed è il Figlio dell’uomo in quanto raffigura l’uomo nella sua condizione divina.
“(…) ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”: “tre giorni” è il modo per dire che risorgerà completamente, pienamente.
“Essi però non capivano queste parole”, perché erano lontane dalle loro convinzioni e attese in merito all’idea di Messia, dal quale attendevano l’instaurazione del regno e un posto di rilievo per loro. Di conseguenza il loro ideale di successo è tale che impedisce di comprendere le parole molto chiare di Gesù. E “avevano timore a interrogarlo”, perché temevano che Gesù confermasse quello che loro avevano capito; quindi, è vero, capivano ma non accettavano. Non è che non capivano, non accettavano quel che Gesù diceva.
Giunsero a Cafarnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discorrendo per la strada?”. L’indicazione “per la strada” è sintomatica, in quanto essa è il luogo della semina infruttuosa. “Per la strada” il seme viene gettato per terra, ma vengono gli uccelli e subito lo raccolgono. E Gesù, spiegando queste immagini, diceva che era il Satana che rendeva inutile la parola.
“Ed essi tacevano”. Tacciono perché provano un senso di colpa. Essi sanno che hanno discusso su qualcosa che Gesù non approva. “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande”, il più importante. È questo il tarlo che rode i discepoli, l’idea di grandezza, l’ambizione di essere uno più importante degli altri.
Gesù non si sorprende della loro incomprensione. Con calma e padronanza, “Sedutosi” – posizione di colui che insegna – “chiamò i Dodici”. È strano, è una casa, una casa palestinese, e non è molto grande.
Perché Gesù deve chiamare? L’evangelista avrebbe dovuto scrivere: ‘Gesù disse …’; invece Gesù li deve chiamare. Perché? I Dodici lo seguono, ma non lo accompagnano, non gli sono vicini interiormente. Gli sono vicini fisicamente, ma la loro mentalità è lontana. Gesù è il Dio che, per amore, si mette al servizio degli uomini. Ha detto che il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire; loro, invece, pensano soltanto a comandare. Ecco perché deve chiamare i Dodici, perché sono lontani.
“E disse loro: ‘Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti’”. Loro hanno discusso su chi vuol essere il più grande e Gesù non accetta questa impostazione, ma desidera che nella comunità ci sia il primo.
Il primo significa il più vicino a lui. Non si tratta di idee di grandezza, non c’è nessuna persona più importante, più grande, ma sì ci sono persone più vicine a Gesù, quelle che si mettono a servizio di tutti e che, liberamente e volontariamente, mettono la loro vita al servizio degli altri.
È difficile comprenderlo per noi, oggi come allora, e come il rovesciamento possa avere successo. Solo dopo la morte e risurrezione di Gesù, e l’invio dello Spirito, i discepoli cominceranno a capire che il rovesciamento è motivato dall’amore incondizionato e irrinunciabile per l’avvento del regno, per la nuova società che egli sta impiantando e in merito alla quale Gesù chiede la fiducia.
Alberto Maggi puntualizza: Con un gesto sorprendente Gesù prese “un bambino”. È l’individuo che sta accanto a lui, e ci si chiede cosa facesse questo bambino in questa casa con i discepoli. Ma il termine adoperato dall’evangelista indica un individuo che, per età e per ruolo nella società, è il meno importante di tutti: potremmo tradurlo con il termine ‘garzone’. Questo garzone, questo ragazzino, è l’immagine del vero seguace di Gesù, di colui che si è fatto ultimo, fra tutti.
“Lo pose in mezzo”. In mezzo è il posto di Gesù. Ebbene, Egli pone al suo posto l’individuo che si mette al servizio degli altri. “Abbracciandolo”: Gesù si identifica con costui, con l’ultimo della società. “E disse loro: ‘Chi accoglie uno solo di questi bambini’, di questi garzoni (quindi non si tratta di bambini o di ragazzini qualunque) ma di questi che sono l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri e che agiscono nel mio nome, identificati con la mia persona e il mio agire per il regno, “accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questo individuo si manifesta la presenza di Gesù e quella di Dio stesso. L’uomo che si mette al servizio è l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore di Dio.