Si chiama Hailu e il suo nome significa forza di Dio. A 16 anni è dovuto scappare dalla sua terra e dalla sua famiglia e dal seminario. Era ed è seminarista felice e pieno di vita. Una notte decise di avventurarsi nel viaggio dei disperati, sognando di poter raggiungere qualche suo parente in Europa e continuare con serenità il suo cammino verso il sacerdozio. I ricordi del suo calvario durante il viaggio sono ancora troppo vivi. Le cicatrici delle torture subite gli ricordano tutto. Spesso torna alla sua mente il suo tragico viaggio attraversando il deserto, il mare e la nave che lo salvò. Hailu racconta con attimi di commozione: “Di notte dormivamo tutti insieme sul ponte di quell’imbarcazione vecchia e sgangherata. C’erano solo due bagni per un centinaio di persone.  Di giorno il sole diventava nemico. Facevamo a turno per godere le zone d’ombra del barcone. Eravamo molto denutriti, ma non a causa di quei giorni trascorsi sulla nave. Era tantissimo tempo che non mangiavamo a sufficienza nel lungo periodo trascorso nelle prigioni dei trafficanti in Libia. Mi lamentavo della vita di seminario, ma ora mi rendo conto che quella era un paradiso”.

Hailu non ricorda bene le date, ma era stato salvato ai primi di agosto di qualche anno fa, forse del 2014, ed evacuato a Lampedusa. Il calvario di Hailu era cominciato quand’era dovuto fuggire dall’Eritrea. Completamente solo. Non vuole parlare del suo viaggio prima dei mesi trascorsi nelle mani dei trafficanti. Come tutti, in questi centri ha subito violenze e torture allo scopo di estorcere denaro ai familiari. Molti non avevano resistito alle violenze ed erano morti. I trafficanti tengono prigionieri migranti e richiedenti asilo in Libia per mesi prima di farli imbarcare verso l’Europa.

Hailu racconta che su quell’imbarcazione gli emigranti provenivano da vari paesi africani, tra loro donne e due bambini. Il viaggio era stato un incubo. Diceva: “Anche se eravamo terrorizzati, non avevamo paura di morire perché venivamo da un inferno di dolore e umiliazioni”. Hailu sa che il soccorso in mare (un obbligo legale e umano di diritto internazionale) è stato ostacolato in maniera crescente negli ultimi anni. Oltre 800 persone hanno perso la vita o risultano disperse nel Mediterraneo l’anno del suo esilio. Un anno prima, a Lampedusa, persero la vita circa 300 naufraghi e il Papa è andato là a pregare per loro e incoraggiare gli altri.

Il seminarista racconta ancora che dopo la partenza sono rimasti in mare in balia delle onde per tanti giorni. Hailù continua il suo racconto con voce pacata: “Quanti giorni? Nel pericolo, non si pensa ai numeri ma a come resistere, non disperarsi e salvare la vita. Erano giorni interminabili. A causa di un guasto al motore dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano, senza bere né mangiare, sono morti tre bambini, tra cui un undicenne in viaggio senza genitori, e due adulti. Quando arrivai a Lampedusa ancora non riuscivo a realizzare di essere sulla terra ferma, di essere salvo, di essere vivo. Avevo perso l’olfatto e il sapore del cibo. Sentivo solo la nausea dell’acqua salata e dell’acqua marcia delle nostre borracce di pelle. A bordo con noi c’era un uomo con due bambini molto piccoli, che erano sul punto di morire per fame. Così abbiamo offerto loro il nostro poco cibo per farli rimanere in vita.  Ma, nonostante il nostro intento, i bambini non ce l’hanno fatta. Per la disperazione abbiamo iniziato a bere acqua di mare, provando ingenuamente a filtrarla con i vestiti. Ero consapevole che avrei potuto ammalarmi o morire bevendo quell’acqua, ma non avevamo altra scelta. Dopo tre o quattro ore i corpi delle persone che non ce l’hanno fatta chiedevano sepoltura. Abbiamo pregato, coprendo quei corpi con quello che avevamo e li abbiamo lasciati andare in mare, il cimitero di chissà quanti emigranti. Alla vista di qualsiasi imbarcazione si accendeva a bordo la speranza di essere soccorsi; speranza che si spegneva ogni volta che quelle persone decidevano di non soccorrerci. Solo una nave si è avvicinata.  Così si è riaccesa la speranza di poter sopravvivere. Ed è stato così. L’imbarcazione, mandata da Dio, ci ha aiutato. Ci hanno offerto tanta acqua, uova, pane, patate, frutta e tanta gioia. Eravamo finalmente salvi, grazie a Dio e ai buoni samaritani”.

Hailu ha lo sguardo dolce e pieno di speranza. Ora ha 27 anni ed è vicino alla ordinazione sacerdotale. Negli anni del viaggio disperato e di prigionia non ha mai pensato di abbandonare la propria vocazione; infatti si trova in un seminario del centro Italia. Per vie provvidenziali e l’aiuto di un missionario espulso dall’Eritrea è stato accolto da uno di quei vescovi, come quello di Fermo, che hanno aperto i loro seminari e canoniche agli emigrati. Hailu fa quello che più desidera e quello che lo ha portato a scegliere la via del sacerdozio: “aiutare la gente”. “La gente ha bisogno di essere ascoltata, ha bisogno di speranza”, afferma. “È contenta quando qualcuno dona il suo tempo a chi non è mai stato ascoltato, stimato o trattato come persona umana. Nel suo racconto il giovane seminarista ringrazia la bontà di tante persone e l’attenzione dei buoni cirenei italiani che gli hanno salvato la vita e la vocazione. Ma accenna anche a quel tumore che uccide, chiamato razzismo insensato e indifferenza assassina: “In un paese cristiano come l’Italia, accenna amaramente Hailu, non mi aspettavo un rifiuto da parte di chi urla e lotta per chiudere i porti e respingerci indietro ai nostri paesi; cioè riportarci a morte sicura. Chi urla e sbraita per chiudere le frontiere dovrebbe invece chiudere la bocca, aprire il cuore e ascoltare il grido di chi soffre e di chi lotta in cerca di un po’ di libertà e di un lavoro per poter vivere”.