Il Vangelo di Marco si divide esattamente in due parti. La prima si conclude oggi, con la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo!” (Marco 8, 29).

San Marco è un grande catechista. Ha imparato tutto alla scuola di san Paolo (Colossesi 4, 10) prima e poi di san Pietro (1 Pietro 5, 13). Ha scritto, probabilmente basandosi sugli appunti degli insegnamenti del principe degli Apostoli, per i non Giudei e cioè per i “pagani”. Siamo noi in generale che dobbiamo percorrere il cammino della conversione per arrivare alla verità del Cristo. Infatti il Vangelo non è un libro, ma una persona e cioè Gesù (Marco 1, 1). E’ un cammino, che dobbiamo fare, tutta la vita. Infatti alla fine, quando Gesù muore sulla croce, il centurione pagano, ha esclamato: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Marco 15, 39). Così si completa la nostra professione di fede, proposta dal Vangelo di Marco e cioè proclamare con la nostra vita che Gesù è il Cristo (= Messia, Salvatore) e Figlio di Dio.

Ma alla fine del Vangelo le pie donne, che andavano al sepolcro, sconvolte dalla scomparsa del corpo di Gesù, si sentono dire da un Angelo: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E’ risorto. Non è qui… Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro:’ Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete come vi ha detto’!” (Marco 16, 6-7). Che cosa significano queste parole? E siamo alla fine della catechesi di Marco.

La finale (= gli ultimi versetti) che troviamo nella Bibbia (Marco 16, 9-20) è un’aggiunta posteriore, sempre parole riconosciute rivelate dal Concilio di Trento (16° secolo), ma che non fanno parte del testo originale.

Si tratta allora di tornare in Galilea per incontrare, questa volta, Gesù Risorto, il Crocifisso.. Il secondo evangelista ha esperienza della vita di fede, che comincia, come un lumicino, e poi, con la permanenza alla sequela di Gesù, questa fede, come una fiamma, cresce e diventa un fuoco enorme capace di illuminare il Mondo intero.  Tornare in Galilea significa cioè vivere la fede nella situazione della nostra vita quotidiana. La Galilea era per gli Apostoli la loro vita normale. E’ lì che hanno sentito la chiamata, che hanno sperimentato la permanenza con Gesù e che hanno ricevuto il mandato della Missione. Ma sempre, come gli Apostoli, dentro il cammino di fede. Secondo san Marco, questo cammino è un avanzare in maniera sinusoidale: cioè avanzando con su e giù, come una linea che continua curvando in su e in giù come appunto una sinusoide. Arrivati all’esperienza del Cristo Crocifisso Risorto, torniamo indietro, in Galilea  e re-incontriamo il Signore, sempre più profondamente e con fede maggiore. In questo modo, incontrando Gesù nella nostra vita di tutti i giorni e nella nostra situazione normale, siamo invitati a riconoscerlo e a proclamarlo Cristo e Figlio di Dio.

La domanda rivolta dal Signore ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che io sia?” (Marco 8, 27) vorrebbe manifestare il contenuto del discorso fatto dai suoi apostoli, inviati in missione (Marco 6, 7). Ma essi citano solo persone del passato e non parlano della novità di Gesù, perché non l’hanno ancora capita. Il Rabbi di Nazareth li incalza: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Marco 8, 29). La risposta viene data da Pietro, a nome di tutti : “Tu sei il Cristo!”.

Si cita nel testo il nome di Pietro, che non è il suo vero nome. Pietro si chiama in realtà Simone e il suo cognome, secondo l’uso giudaico, è “figlio di Giona” (Matteo 16, 17), cioè figlio di suo padre Giona. Quando Gesù lo ha chiamato, gli ha dato un altro nome: ‘Kefa‘, in aramaico, che vuol dire roccia. E in greco abbiamo ‘Petros‘, da cui il nostro Pietro. Gesù conosceva i suoi uomini e ha definito il futuro capo degli Apostoli come “roccia”, cioè fuori metafora: “testa dura”. Ma san Marco, quando usa il soprannome (= Pietro) è perché c’è una situazione negativa, quando appunto Simone figlio di Giona ha un parere o un atteggiamento contrario a quello di Gesù. Come in questo caso. Certo il Signore è il Messia, per Pietro, ma secondo la concezione del popolo, cioè un Messia trionfatore e dominatore del Mondo. Non certo conforme a quello che aveva profetizzato Isaia: “Non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Isaia 50, 5-6). E’ un passo del secondo Isaia. Siamo verso il 538 prima di Cristo, quando Ciro, re dei Persiani, permette agli Ebrei di tornare a Gerusalemme. Il servo, di cui si parla, è il Mediatore della salvezza e la prima generazione cristiana lo ha identificato con Gesù (Matteo 12, 17-21; Marco 10. 45 e Giovanni 1, 29). E’ la via della Croce; cosa che Pietro non ha capito. Per questo Gesù lo chiama: “Satana!” (Marco 8, 33), perché non accetta il progetto di Dio. Il Signore lo invita allora a mettersi dietro a lui, nella posizione del vero discepolo: ha ancora molte cose da imparare. Infatti, durante la prova della Passione, lo rinnega (Marco 14, 66-72). Ma poi arriva il pentimento, il pianto e la scoperta del vero Gesù.

Ma la parola di Gesù è anche per noi, ora, adesso. Egli infatti chiama i discepoli e la folla per far capire che sono fuori strada. La sua via è quella della Croce. Il metodo del Vangelo (cioè la via della croce) non significa la ricerca della sofferenza e del dolore. Come se noi Cristiani fossimo degli “stoici” attuali. Così la pensava Luciano De Crescenzo (1928-2019), celebre scrittore napoletano, che ci definisce in questo modo. Ma Dio non vuole la nostra sofferenza e non ci castiga come un padrone sadico. Il metodo della croce è semplicemente l’accettazione di quello che siamo e quindi del criterio di verità. Siamo creature, basate sulla fisicità e la materialità del nostro essere. E quindi siamo soggetti alla finitudine della nostra vita, dei limiti della corporeità. Bisogna accettare quello che siamo, ma siamo anche immagine di Dio, così creati da Lui (Genesi 1, 27). Egli ci è vicino e ci sostiene, perché è un Padre.

Prendere la croce, come ci invita Gesù, significa riconoscere Gesù come Cristo e Figlio di Dio. Egli è il Signore della nostra vita. Egli ci chiama ad essere figli e ad imitarlo nel suo rapporto con Dio Padre e nelle relazioni con gli altri, che sono tutti nostri fratelli e sorelle.

In questo san Giacomo è chiaro e performante.”Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del Mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno?… A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? (Giacomo 2, 5 e 14). Quali sono queste opere? Il Vangelo di Matteo lo spiega con le parole di Gesù stesso, quando alla fine dei tempi ci sarà il giudizio (Matteo 25, 31-46). Saremo giustificati infatti solamente se avremo fatto opere di carità, perché il povero, il sofferente, lo “scarto” dell’umanità, è proprio Gesù stesso.

San Daniele Comboni (1831-1881) sapeva benissimo che l’essenziale del Vangelo era la carità, anzi la verità del nostro messaggio dipendeva esclusivamente dalle opere giuste che noi siamo capaci di fare, sostenuti dallo Spirito di Gesù. Così scriveva a p. Giuseppe Sembianti, superiore del suo seminario di Verona, il 20 aprile 1881: “Quanto all’educazione religiosa, i nostri Missionari devono essere santi e capaci… Primo ‘santi’, ma non basta: ci vuole ‘carità’ che rende capaci i soggetti. La nostra Missione è così ardua e laboriosa che non tollera Missionari dal collo storto,… che non si curano della conversione delle anime… Bisogna accenderli di carità... che si manifesta con la vita…Tutto per guadagnare le anime degli Africani a Cristo, che è l’opera più difficile dell’Apostolato Cattolico”.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

missionario comboniano
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