In questa Domenica ci vengono dati degli insegnamenti importanti. Siamo tutti sordi, balbuzienti e ciechi (come dice Isaia e anche il Vangelo). Abbiamo bisogno di essere guariti, per poter ascoltare la Parola di Dio e poi per poter riconoscere che Gesù è il Figlio di Dio e il nostro Messia. La prima lettura (Isaia 35, 4-7) è in stretto legame con il Vangelo. Lo è sempre, perché nella riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II questo criterio è stato adottato e sempre seguito nella scelta dei testi liturgici. La prima lettura viene scelta sempre nell’Antico Testamento, la seconda dagli Atti e dalle Lettere degli Apostoli e dall’Apocalisse, la terza, e cioè il Vangelo, sempre dai quattro che conosciamo, con una lettura continua dei tre Sinottici. Il quarto Vangelo è intercalato nei momenti opportuni, quasi per completare la conoscenza di Gesù.  Come è successo dalla 17° Domenica fino alla 21°, dove abbiamo meditato il capitolo 6° di Giovanni, in collegamento con la catechesi sul pane, per arrivare a scoprire che il “pane disceso dal Cielo” (Giovanni 6, 58) è Gesù e lo troviamo anche oggi nel Sacramento dell’Eucaristia.

Ma il testo del Vangelo di oggi ci parla di Gesù che è a Tiro, una città che si trova a 50 chilometri a Nord di Haifa, la città più importante della Galilea occidentale, nell’attuale Stato di Israele. Era anche così al tempo di Gesù, ma Haifa attuale non esisteva. C’era San Giovanni d’Acri, possedimento crociato fino al 1291.

Gesù dunque era a Tiro e voleva tornare a Cafarnao, la sua città di predilezione. Invece di prendere la strada più corta, il Signore va a Sidone, sempre in Libano, a 20 chilometri a nord di Tiro, per poi dirigersi verso la Decàpoli, a est del lago di Galilea, nell’attuale Giordania. Come mai? Il lungo percorso compiuto da Gesù, in forma di semicerchio, sembra strano. Ma nulla è strano nei testi evangelici. La strada percorsa dal Signore, sempre a piedi, aveva come scopo un insegnamento teologico. Il Cristo ha evitato la Terra Promessa (= Israele). Infatti è passato da una terra pagana (= Tiro e Sidone) a un’altra terra pagana (= la Decàpoli). E’ un modo per giustificare e per spiegare l’universalismo della salvezza. Certo Gesù è mandato per radunare “le pecore d’Israele” (Matteo 15, 24). Ma, alla fine della sua Missione, invia i discepoli dicendo: “Andate in tutto il Mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Marco 16, 15).

Ma come deve essere l’accoglienza del Vangelo, e cioè di Gesù? I discepoli (e ancor più la folla) facevano fatica a capire il vero significato del suo insegnamento. Per questo Gesù compie il segno del sordo che è guarito. Non è un sordo che poi è anche muto, come dice il testo. In greco si parla di “moghilalon”, cioè di un “balbuziente”. Gesù lo guarisce. Prima porta il sordo “in disparte”. Quando si parla di portare qualcuno in disparte, ci si riferisce sempre agli Apostoli, che fanno fatica a capire l’insegnamento di Gesù. Il Signore usa quasi la violenza, “ficcando le dita” nelle orecchie, e poi con la saliva tocca la sua lingua. La saliva, secondo la mentalità dell’epoca, era un condensato del respiro (e quindi dello spirito; in questo caso quello di Dio). E dice: “Effata”. E’ una parola aramaica. Ogni volta che si usano parole aramaiche nel Vangelo di Marco, vuol dire che ci si rivolge in maniera particolare al Mondo giudaico, e non ai pagani. Perché sono soprattutto i Giudei (= in questo caso rappresentati dai Discepoli) che fanno fatica a credere.

Gesù guarisce il muto in due momenti. Prima il muto viene portato in disparte, poi il Signore agisce su di lui, perché possa finalmente ascoltare chiaramente la Parola e fare in modo che la lingua (del balbuziente) arrivi a pronunciare la parola che salva. Il richiamo al profeta Isaia (vissuto nell’ottavo secolo) è evidente (Isaia 35, 4-7).

Il muto balbuziente è guarito in due tempi, sull’esempio del Vangelo di Marco, che in due tempi ci fa incontrare il Signore Gesù. Prima dobbiamo scoprire che Gesù è il Cristo e poi arrivare alla confessione del centurione, un soldato romano pagano che esclama: “Davvero quest’uomo è Figlio di Dio” (Marco 15, 39). Infatti è lì che dobbiamo arrivare, cioè a scoprire il volto di Dio nel Crocifisso-Risorto. Veramente l’unico vero volto di Dio è quello del Figlio che lo ascolta e che fa la sua volontà.

Dio è parola, comunicazione e dono di sé. Per questo l’uomo è prima di tutto orecchio, e poi lingua. Noi ci distinguiamo dagli animali soprattutto per la parola, grazie alla quale entriamo in dialogo con Dio e fra di noi.

Il Cristianesimo, anche se ama il libro (= la Bibbia) non è un feticismo della lettera. La Bibbia non è come il Corano, dove è la lettera che conta. Noi abbiamo il “logos” (cioè la Parola di Dio) che diventa carne (Giovanni 1, 14). Pertanto la scoperta di Dio avviene attraverso il Figlio, che è l’unico volto di Dio. Ogni immagine che ci facciamo di Dio è un idolo. Anche il Corano è un idolo; perché ci limitiamo alla parola, portata nel cuore di Maometto dall’Arcangelo Gabriele. Ma resta sempre una parola umana, espressa da un uomo. E’ quindi un “idolo”, se ci limitiamo al testo del Corano, che è per i Musulmani ed è intraducibile e inspiegabile. Bisogna fare un passo avanti. Guarire dalla nostra sordità e non più selezionare ciò che ci fa comodo.

Per fortuna Gesù è il medico che ci guarisce e ci dà la capacità di ascoltare Lui e di entrare in dialogo con Dio, suo Padre e anche nostro.

A ragione san Giacomo rimprovera la nostra duplicità, perché privilegiamo i potenti. Ma Dio preferisce i poveri (Giacomo 2, 5), gli “anawim”, come dice la Madre di Gesù nel suo cantico, il Magnificat (Luca 1, 51-52).

San Daniele Comboni (1831-1881) ha scelto di lavorare in Africa Centrale, perché là vivevano le popolazioni più povere e disprezzate del Mondo. E quindi amate da Dio, più di tutte le altre. Così scriveva, nel rapporto sul Vicariato dell’Africa Centrale, inviato al Prefetto di Propaganda Fide, il 25 febbraio 1872: “Concluderò con l’esporre in due parole il piano di azione per portare il Vangelo e la rigenerazione nell’Africa Centrale… Io sono pronto, con tutti i miei Missionari, a sacrificarci interamente fino alla morte nell’arduo e laborioso apostolato nella Missione Africana, per procurare a tutti la salvezza… Quelle popolazioni sono le più infelici, le più bisognose e le più abbandonate del Mondo”.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

missionario comboniano
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