Dopo cinque Domeniche, nelle quali abbiamo meditato il capitolo 6 di Giovanni, riprendiamo oggi la lettura continua del Vangelo di Marco, fino ad arrivare all’inizio dell’Avvento (28 novembre 2021). Ci siamo fermati, durante queste Domeniche, a riflettere sul significato eucaristico della Missione di Gesù. Il pane moltiplicato per la folla (Marco 6, 30-44), come la manna donata miracolosamente nel deserto del Sinai (Esodo, capitolo 16), erano il simbolo dell’Eucaristia. Durante l’Esodo di Israele nel deserto, Dio era presente nella tenda del convegno, nella quale era custodita l’arca dell’alleanza, che conservava i segni della presenza di YHWH (e cioè le tavole dei 10 comandamenti, la manna, l’acqua del Mar Rosso in un vaso e il bastone di Mosè). Nella nuova Alleanza, la presenza di Dio non ha più bisogno di segni fisici. Ora che il Logos (= il Figlio) si è fatto carne (Giovanni 1, 14), è Dio stesso che ha deciso di restare in mezzo a noi, come “pane vivo disceso dal cielo” (Giovanni 6, 51). Durante la celebrazione della Messa, possiamo entrare in comunione con Dio con la mensa della Parola e la mensa del Pane consacrato. E’ una grande fortuna ed è una grazia che dobbiamo meritare, attraverso il compimento di opere che manifestino la nostra fede. Infatti la Lettera di Giacomo ci insegna che senza le opere la nostra fede è morta (Giacomo 2, 14-26). A questo proposito il riformatore Martin Lutero (1483-1546), accorgendosi di essere contraddetto da questa lettera, la ha cancellata dal Nuovo Testamento. Egli insegnava che con la sola fede sei salvato. “Pecca fortiter sed crede fortius” soleva dire e cioè: pecca pure molto, ma credi ancora di più e sarai salvato. Non è questo il parere di san Giacomo che cita in maniera particolare il nostro Padre nella Fede, Abramo. “Lettera di paglia” esclamò Martin Lutero, escludendo questo testo dalla sua Bibbia. Ma nel XX secolo  la Lettera di Giacomo è tornata a far parte della Bibbia come testo rivelato, per tutte le Chiese  cristiane.

Certo è importante saper leggere la Parola di Dio e applicarla al tempo presente. Non dobbiamo ripetere pedissequamente le cose ricevute. Bisogna appunto saperle applicare alle situazioni attuali. La Bibbia non è come il Corano dei Musulmani, che non è possibile interpretare né tradurre in altre lingue, ma solo spiegare per capire meglio il suo insegnamento letterale.

Giovanni XXIII, indicendo il Concilio Vaticano II, ci invitava a considerare la Chiesa e le nostre tradizioni, che esprimono la nostra fede, non come “un museo, ma come un giardino”. Nel giardino siamo invitati a lavorare per ottenere fiori più smaglianti e anche frutti che più fanno bene alla nostra salute.

Nel Vangelo di oggi Gesù ce ne dà un esempio pertinente. Dei Farisei e degli Scribi si sobbarcarono una passeggiata a piedi di più di 120 chilometri, da Gerusalemme alla Galilea, per venire a vedere Gesù e a controllare con cura il suo insegnamento. I Farisei osservavano la legge con i suoi 613 precetti, puntigliosamente e in questo modo si ritenevano giusti. Gli Scribi erano gli specialisti della Teologia di quel tempo. Che cosa aveva fatto o detto Gesù da essere considerato un pericolo per la religione dell’epoca. Semplicemente i discepoli avevano trattato il pane (dopo il segno compiuto da Gesù) senza prima essersi lavati le mani, così pure la folla che aveva mangiato i pani e i pesci (Marco 6, 30-44). Ora la tradizione imponeva l’abluzione con acqua prima di toccare il cibo. Ma il segno del pane, compiuto da Gesù, è figura dell’Eucaristia. Nel ricevere l’Eucaristia non si richiede di essere puri, ma è mangiando l’Eucaristia che si viene purificati. ”Ipocriti!” ha detto Gesù. Ipocrita era l’attore che nel teatro greco si muniva di una maschera per rappresentare i vari personaggi. Il significato autentico di questa parola è dunque: “Commediante!”. E Gesù cita il profeta Isaia: “Questo popolo si avvicina a me (= il Signore) solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Isaia 29, 13). Il Signore voleva dire: “La vostra religione, il vostro culto non è che di facciata. Il vostro cuore è altrove”.  Infatti i precetti della tradizione sono umani, anche se si pretende che siano di imposizione divina. Nella legge ricevuta sul Sinai, c’era quella scritta (= la Torah), ma anche quella orale (= il Talmud), che aveva lo stesso valore divino. Ma Gesù se la prende anche con la legge scritta. Infatti il libro del Levitico (per esempio il capitolo 11) fa la lista dei cibi puri, che si possono mangiare, e quelli impuri, che non si possono toccare. L’Apostolo Pietro, vedendo scendere dall’alto una specie di lenzuolo contenente ogni tipo di animali, all’invito di una voce che diceva: “Prendi e mangia”, Pietro risponde: “Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro”. E la voce: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano” (Atti 10, 13-15). Il riferimento è proprio al Vangelo di oggi, dove Gesù dichiara solennemente di rendere “puri tutti gli alimenti”(Marco 7, 19). In questo modo il Rabbi di Nazareth se la prende anche con la legge scritta (il Levitico) e dice chiaramente che la lista dei cibi puri e impuri non è certo Parola di Dio, cioè non corrisponde alla volontà del Signore. Dov’è allora la volontà di Dio, osservando la quale siamo veramente puri? Bisogna andare verso il cuore, cioè analizzare la coscienza. Ciò che rende possibile il rapporto con Dio non è determinato da questioni di cibo, non è questione di qualcosa che è esteriore all’uomo, ma solamente sono da considerare tutti i nostri modi di trattare gli altri. Se tu fai del male al tuo prossimo, rompi il tuo rapporto con Dio e sei escluso dalla sua comunione. Quando il tuo cuore non usa delle creature per amare i fratelli, pecchi contro Dio. Gesù dice: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, posa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro” (Marco 7, 18). E poi il Signore con i discepoli rincara la dose e dice: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” (Marco 7, 21-22).

Questa è una lista di dodici comportamenti, che riguardano relazioni con i nostri simili, non con Dio. Il primo caso non è impurità. E’ una traduzione non corretta del testo greco. Si tratta piuttosto di prostituzione. E cioè l’individuo è disposto a tutto  (si vende addirittura, come nell’amore pagato con denaro nel caso della prostituzione) per conseguire i suoi progetti e soddisfare le sue ambizioni. L’ultimo atteggiamento è la stoltezza, meglio la stupidità, propria di colui che vive solo per se stesso: povero illuso!

Il Cristiano non vive solo pensando al passato e ripetendo una serie di riti, fino all’infinità. Egli rompe con il passato, perché, celebrando l’Eucaristia, scopre una novità assoluta e la sperimenta. Nell’Eucaristia infatti c’è la memoria del Corpo e del Sangue del suo Signore, consegnato a noi nel pane e nel vino. Questo mistero di amore è la nostra vera tradizione, che, come insegna l’Apostolo Paolo, abbiamo ricevuta e a nostra volta la trasmettiamo agli altri (1 Corinzi 11, 23-26).

San Daniele Comboni (1831-1881) andava sempre all’essenziale dell’insegnamento di Gesù. Quello che chiedeva ai suoi Missionari era di vivere nell’Africa Centrale il cuore del Vangelo, così da attirare, come dice Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, non con l’insegnamento di una ideologia, ma con la pratica della carità, alla scoperta dell’amore di Dio, rivelatoci da Gesù (n° 167). Così scriveva a suo cugino Eugenio Comboni, il 24 dicembre 1879: “La vita del Missionario è carità”.

 

Tonino Falaguasta Nyabenda

missionario comboniano
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