capitolo 6° del Vangelo di Giovanni, che ben si inserisce nel discorso sul pane del Vangelo di Marco. E ci viene data subito questa perla: “Io sono il pane della vita” dice Gesù (Giovanni 6, 35). Io-sono è il nome di Dio (Esodo 3, 14). Nel quarto Vangelo troviamo questa affermazione sulla bocca di Gesù per ben 26 volte. Secondo la ghematria, 26 è la somma delle cifre del sacro tetragramma (= JHWH: il nome impronunciabile di Dio). Gesù presenta quindi la sua natura divina con prudenza e piano piano, per permettere ai discepoli di accettarlo e di credere in lui. 

Nella prima lettura (Esodo 16, 2-15) si parla di cibo che piove dal cielo. Si tratta della manna e delle quaglie che hanno permesso al popolo di Israele di sopravvivere nel deserto del Sinai. Ma tutto ciò era una figura di ciò che sarebbe arrivato nel futuro, quando ci verrà offerto il pane vero (Giovanni 6, 32). La folla, dopo aver mangiato a sazietà pane e pesci, non trovando più il Rabbi di Nazareth, e neppure i suoi discepoli, partì alla sua ricerca. Lo trovò a Cafarnao e, radunatasi nella sinagoga, Gesù impartisce una istruzione, che vale anche per noi oggi.

Non dobbiamo cercare Gesù per avere il pane che perisce. Per questo la folla era disposta a proclamarlo re (Giovanni 6, 15). Un re di questo tipo sarebbe una pacchia. Non ci sarebbe più sforzo o lavoro per la ricerca del cibo. Invece tutti siamo chiamati a lavorare, per poter vivere, come ha detto Dio ad Adamo, dopo il peccato originale: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Genesi 3, 19). Anche san Paolo ai Cristiani di Tessalonica, che non volevano più lavorare, aspettando la parusia, cioè la venuta del Cristo alla fine del Mondo, ha detto in maniera forte: “Chi non vuole lavorare neppure mangi” (2 Tessalonicesi 3, 10). Non è stato certo Karl Marx (1818-1883) a dire questa frase, come spesso si insegna. Ma qualcuno molto più importante, e duemila anni prima. 

Ma torniamo alle parole di Gesù. Si tratta di cercare il pane vero. Allora il Signore ci suggerisce: “Io-sono il pane della vita” (Giovanni 6, 35). Cerchiamo di capire il linguaggio di Gesù, che è mistico, perché parla di un mistero, il mistero dell’Eucaristia. Quando il Signore afferma di essere “il pane della vita”, dice una metafora. Metafora è una parola greca che significa: “Portare al di là”. Bisogna capire allora il vero linguaggio di Gesù. Egli dice di essere il pane. Il pane è il cibo necessario, senza il quale la vita non è possibile. Dunque il pane è simbolo della vita. Ma Gesù dice di essere lui il pane, che vuol dire vita. Lui Gesù ha la vita, perché ama il Padre, che gli dona la vita. Ed è questa vita che dona a noi (nell’Eucaristia), noi suoi fratelli e sorelle. 

Questa vita è costituita di relazioni, fin dal primo momento del nostro essere persone. Senza relazioni, viviamo come in una prigione, viviamo come morti. “Nessun uomo è un’isola” diceva quel grande mistico trappista americano Thomas Merton (1915-1968). 

Queste relazioni, per essere vive, devono essere di amore. Diceva infatti l’apostolo Giovanni: “Chi non ama dimora nella morte” (1 Giovanni 3, 14). L’odio produce fatalmente la divisione, la lotta fratricida, la violenza, la guerra e finalmente la morte. Per questo Gesù ha ridotto i 613 precetti della Legge Mosaica a uno solo: Ama Dio e ama il prossimo. Se uno ama, non farà mai del male agli altri e vivrà anche la condivisione, perché nessuno viva nel bisogno e tutti abbiano il necessario per la loro vita. 

Gesù parlando del pane e identificandosi ad esso, applica a sé le caratteristiche del pane, sempre in maniera metaforica. Il pane è dono del cielo, ma è anche frutto del lavoro umano.  Che cos’è allora questo pane? Il pane è cibo e alimenta la vita. Ma non è la vita. La vita è accogliere il mondo e se stessi come dono di amore di Dio.

C’è una tentazione per tutti ed è quella di chi fa del pane un feticcio, cioè cercare di disconoscere la realtà della relazione, come la fidanzata che si innamora dell’anello e non della persona che glielo ha dato. Il pane che Gesù ha distribuito dopo averlo benedetto è lui stesso, è il suo corpo che è dato per noi sulla Croce, nella realtà della Pasqua. Allora il pane che ci dona, che è cibo e che è quindi vita, ci conferisce la sua vita di Figlio. Mangiarlo significa assimilarlo. Più chiaramente: poiché il pane è il suo corpo crocifisso e risorto, siamo assimilati da Lui, per vivere di Lui e come Lui. Ma c’è una condizione essenziale perché tutto questo avvenga: la Fede. Infatti Gesù ha detto: “Questa è l’opera di Dio, che crediate a Colui che Egli (= il Padre) inviò” (Giovanni 6, 29). Nel sacramento dell’Eucaristia sperimentiamo la volontà del Padre di darci il suo Figlio. Nel Figlio noi scopriamo l’amore di Dio per noi, amore che dobbiamo condividere con gli altri. Questa è la vita cristiana, che sperimentiamo nell’Eucaristia. Ed è una vita eterna, perché non possiamo smettere di amare Dio e i fratelli. E’ questo amore che ci dà la vittoria sulla morte, ultimo limite della vita umana. Gesù infatti ha detto: “Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni 6, 40). 

San Daniele Comboni (1831-1881) ha lavorato tutta la vita perché i popoli dell’Africa Centrale potessero ricevere il pane della vita eterna, nel sacramento dell’Eucaristia. Lo esprimeva chiaramente nelle regole scritte nel 1871 per il suo Istituto delle Missioni per la Nigrizia: “I miei Missionari devono tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, adorandolo particolarmente nel Sacramento dell’Eucaristia. Procurino di capire sempre meglio che cosa significhi un Dio morto in Croce per la salvezza delle anime”.

 

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