La tematica centrale delle letture di questa XV domenica del T.O. è la vocazione e la missione:
– la vocazione/missione del profeta: “Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele” (prima lettura, Amos 7,12-15);
– la vocazione/missione del cristiano: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità…” (seconda lettura, Efesini 1,3-14);
– la vocazione/missione dell’apostolo: “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due… Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse” (vangelo).

Alcune riflessioni sulla Vocazione

Prima di passare al brano del vangelo, riflettiamo un momento su questo binomio vocazione e missione, ossia chiamata e mandato, elezione ed incarico, sequela e apostolato… le due dimensioni inscindibili dell’essere e del fare.

Prima di tutto, rimuoviamo dalla mente la vecchia idea che la vocazione riguardi solo preti e suore, religiosi e missionari o, tutt’al più, qualche laico chiamato a svolgere un compito particolare nella comunità cristiana. In realtà, la vita cristiana è vocazione, sia essa vissuta in una speciale consacrazione o nella vita laicale e matrimoniale. Anzi, si potrebbe dire, in un senso lato, che la “vocazione” caratterizza ogni vita umana, come ricerca di senso.

In secondo luogo, sarebbe fuorviante pensare che la questione della vocazione riguardi solo i giovani in ricerca di un progetto di vita o del piano di Dio su di loro. Essa abbraccia l’intero arco della nostra esistenza. La “ricerca vocazionale” non cessa, una volta che abbiamo appreso cosa Dio voglia da noi, ma continua per tutta la vita. “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli” (Isaia 50,4). Vivere la nostra vita in tensione vocazionale dona ad ogni momento un sapore di freschezza e novità. In caso contrario, facilmente cadiamo nella stanchezza della grigia quotidianità. Per essere fedeli alla vocazione non basta andare avanti per inerzia. Bisogna ravvivare continuamente il fuoco della chiamata, come Paolo raccomandava a Timoteo: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani.” (2Timoteo 1,6). Il nostro “Sì” va rinnovato ogni giorno, altrimenti si logora e sbiadisce.

Infine, oserei dire che il nostro “Sì” non riguarda solo il presente e il futuro, ma addirittura il passato perché, per strano che ciò ci possa sembrare, la fedeltà passata non è mai al sicuro, sino al “Sì” finale. Io oggi posso pentirmi di una scelta che, a suo tempo, ho fatto con gioia e generosità. Anzi, il grande “Sì” rinnovato al passato può essere ancora più impegnativo che il “Sì” di oggi, fatto, può darsi, per forza o per inerzia. Questo spiega come tante vocazioni, consacrate o matrimoniali, finiscano nell’amarezza o nel fallimento. Qui risiede la suprema beatitudine – quella della salvezza – che Gesù proclama proprio nel contesto dell’invio dei Dodici in missione: “Chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Matteo 10,22).

Dopo queste considerazioni, forse non del tutto pertinenti, passiamo a sottolineare alcuni aspetti del vangelo odierno.

Le tre tappe della vocazione

Il brano del vangelo inizia dicendo che “Gesù chiamò a sé i Dodici”. Ci sono tre chiamate speciali nella nostra vita. C’è, prima di tutto, la chiamata personale: “Passando, Gesù vide Simone e Andrea… Giacomo e Giovanni… e li chiamò” ed essi diventarono dei discepoli (Marco 1,16-20). Tale chiamata ha raggiunto anche ciascuno di noi!
In un secondo momento, c’è la chiamata comunitaria: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e per mandarli a predicare.” (Marco 3,13-14). Così i discepoli diventarono una comunità. Tutti siamo dei “con-vocati”, ‘chiamati insieme’. Non ci sono vocazioni ‘private’!
Infine, c’è la vocazione apostolica, l’invio in missione. È il momento presentato nel vangelo di oggi: “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due” ed essi diventarono apostoli. Ogni vocazione sbocca nella missione. Una missione comunitaria (a due a due), ecclesiale, non da franco-tiratori!

Qui si tratta del primo invio dei Dodici, un tirocinio in vista dell’invio finale, dopo la risurrezione, che li caratterizzerà in definitiva come “apostoli”, inviati, missionari: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.” (Marco 16,15). Vediamo, quindi, più da vicino questa terza tappa.

La nostra missione prolunga quella di Gesù

Gli apostoli prolungano la missione di Gesù (Marco 3,14-15): annunciare il Regno di Dio, scacciare i demòni e guarire gli infermi. Perciò, il Signore trasmette loro il suo potere: “e dava loro potere sugli spiriti impuri”. Il Vangelo di Marco è noto per mettere in risalto l’attività di Gesù nel cacciare gli spiriti impuri. Perché lo fa? Non solo per dimostrare il potere divino di Gesù, ma per evidenziare che il Regno di Dio sta avanzando e sconfiggendo il regno di Satana.

Gli apostoli sono coscienti di avere ricevuto questo “potere sugli spiriti impuri” e lo esercitano con successo. Purtroppo, con noi sovente non è così. Non abbiamo fede in questo dono che ci è conferito con il sacramento della cresima. Per paura o codardia, spesso non combattiamo il male e così permettiamo che si espanda nei nostri ambienti di vita.

La missione del bastone e dei sandali

Una volta conferito questo potere, il Signore “ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche”. Questo ordine di Gesù manda in crisi qualsiasi missionario. È l’unica volta nel vangelo di Marco che Gesù comanda qualcosa ai discepoli. Lo ordina perché questo non è una cosa naturale. Noi siamo tentati di fare missione con mezzi potenti ed efficaci. In fondo non ci fidiamo del potere della Parola di Dio e della sua provvidenza. Per istinto, cerchiamo altre sicurezze umane.

Finché non sei povero, ogni cosa che dai è solo esercizio di potere”, dice Silvano Fausti. La vita e la missione, però, si incaricano di spogliare l’apostolo. L’insuccesso, le delusioni, l’opposizione, la fragilità… ci portano alla conclusione che la missione si fa nella debolezza perché possa manifestarsi in noi la potenza di Dio (2Corinzi 12,7-10).

Se diamo uno sguardo ai testi paralleli di Matteo (cap. 10) e Luca (cap. 9 e 10), noteremo che Gesù dice di non procurarsi nemmeno il bastone e i sandali. In questo caso, il bastone è ritenuto l’arma del povero e la missione va fatta disarmata. Per Marco, invece, il bastone è l’attrezzo del pellegrino che l’aiuta a camminare. Inoltre, è il segno del potere che Dio dà al suo inviato, come il bastone di Mosè.
I sandali per Matteo e Luca sono un lusso. Per Marco, in un altro contesto culturale, sono segno di libertà. Gli schiavi andavano scalzi. L’evangelizzazione, però, porta un messaggio di libertà.

Per concludere, domandiamoci:
1) Sono un cristiano pellegrino o un cristiano sedentario, con troppi “bagagli” per poter spostarmi?
2) Nelle mie debolezze riconosco l’azione di Dio che mi spoglia delle false sicurezze?
3) Qual è il “bastone” su cui mi appoggio per camminare?
4) Sono un cristiano pasquale, “con i fianchi cinti, i sandali ai piedi e il bastone in mano” (Esodo 12,11), sempre pronto per partire?

P. Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, 11 luglio 2024