Nella lettera ai Corinzi San Paolo riassume il suo vangelo dicendo che Cristo da ricco che era si è fatto povero per noi, affinché noi diventassimo ricchi per la sua povertà. Gesù è colui che ha aperto all’uomo l’accesso ad una vita sovrabbondante, ma lo ha fatto in una maniera non immediatamente comprensibile alla sapienza umana. Egli, infatti, ha scelto liberamente di impoverirsi, di rinchiudere, cioè, tutta la pienezza della vita divina nella povertà della condizione umana in modo che, proprio a partire da tale sua povertà -e non dalla sua ricchezza – noi potessimo diventare ricchi. È dalla piccola frangia del mantello che egli fa passare a chi crede la sua vita sovrabbondante. In questa prospettiva le due situazioni del Vangelo acquistano un valore paradigmatico. Le due figure femminili, che per loro natura esprimono la vocazione a generare la vita e a custodirla e farla crescere, di fatto la perdono. Ciò rivela come la povertà della nostra esistenza non è solo materiale ma più radicalmente esistenziale. È una povertà che ci impedisce di vivere la nostra vita come un dono, ci rende incapaci di “donare la vita”, di comunicare ad altri la vita o in ogni caso di promuoverla e condividerla con generosa sovrabbondanza. La bambina del vangelo, che muore a 12 anni, viene meno proprio quando nel pieno della sua vitalità potrebbe aprirsi alla fecondità e dare vita ad altri. La donna che perde il flusso di sangue per 12 anni fa l’esperienza paradossale che, nonostante i molti beni che aveva e che ha speso per guarire, ciò che avrebbe dovuto significare la sua fecondità, il dono della vita, diventa invece causa di una lenta e inesorabile perdita di vitalità. Ma non sono solo le due protagoniste ad essere incapaci di dare la vita. Neanche i medici sono in grado con tutti i loro sforzi di restituire la salute alla donna, così come la folla non è capace di consolare la famiglia in lutto per la morte della bambina. Quante situazioni attuali verrebbero alla mente in cui non solo ci sono persone che soffrono e muoiono ma ci sono anche interi settori della società che non credono più al dono della vita, che deridono la resilienza dei chi continua a crederci, che scoraggiano chi non si arrende e continua a lottare. Quante situazioni, piccole o grandi, in cui la vita, proprio come ammonisce Paolo scrivendo ai Corinzi, rischia di essere dominata dall’egoismo e dalla grettezza piuttosto che dalla generosità, dalla liberalità del dono, dalla preoccupazione di far rifluire la pienezza di vita ugualmente su tutti. Anche questa è parte della povertà umana. Questa radicale impotenza dell’umanità a preservare la vita e a donarla in abbondanza non deve scoraggiare. Il libro della sapienza fa delle affermazioni profondissime: la morte non viene da Dio ma si è introdotta nel mondo subdolamente per invidia di un nemico della natura umana. La creatura è fatta ad immagine di Dio e quindi creata per l’immortalità. Della morte, alla fine, fanno esperienza non tanto quelli che vanno nella tomba, ma quelli che scelgono di appartenere al nemico. Ebbene è proprio questa situazione tragica dell’uomo che Cristo assume per cambiarla, non a partire da un intervento magico ed esterno, ma appunto dall’interno, facendosi povero come noi. Ciò significa che la sua azione trasformatrice non consiste in una manifestazione di potere dall’alto ma piuttosto nello stabilire una relazione di fiducia e di amore tra lui povero e chiunque nella propria povertà si avvicina a Lui. La donna è guarita non semplicemente perché ha toccato il mantello. Tanti lo toccavano. Essa è guarita perché, accettando di relazionarsi personalmente e non anonimamente con Gesù, essa ha accettato il rischio di esporre la sua povertà agli occhi di tutti ed ha dato fiducia ad un Gesù che si manifesta povero, quando invece di dare sfoggio di chiaroveggenza, si limita ad interrogare e a cercare con lo sguardo chi lo ha toccato. Del resto, venire alla luce per la donna implicava la vergogna ed il timore, ma anche una grande fiducia perché Gesù non aveva chiesto una confessione ma soltanto di conoscere chi l’avesse toccato. Evidentemente ella ha creduto che Gesù, nella sua povertà umana, avesse qualcosa da dargli che superava il benessere fisico. Il padre della fanciulla morta dovrà anche lui rischiare il ridicolo di fronte ad una folla scettica. Anche lui preferisce dar fiducia a Gesù che di fronte alla folla sprezzante ancora una volta, invece di fare sfoggio di poteri speciali, quasi si nasconde dietro la sua povertà umana, suggerendo con semplicità quasi ingenua che la fanciulla non è morta ma dorme. In privato di fatto la risuscita ma anche in quel caso lo fa con un atteggiamento informale che difficilmente potrebbe essere più umano: dategli da mangiare. Tutto è così umano e a contempo tutto così aperto al divino. È il mistero della redenzione che riporta la sovrabbondanza della vita divina nella povertà della natura umana.