Nel libro del deuteronomio Dio invita Israele a ripercorrere tutta la storia dell’umanità, a partire dalla creazione del mondo e del primo uomo Adamo per riconoscervi due cose meravigliose. Il fatto che Dio voglia parlare con l’uomo, cioè che Dio cerchi di avere una relazione personale con la sua creatura. Ed il fatto che Dio si cerchi un popolo suo tra le nazioni, cioè, faccia nascere e crescere una comunità che gli appartenga, la cui identità, cioè, manifesti qualcosa della sua natura divina. A questo invito, che rimanda alle origini del tempo e alla creazione dell’uomo, fa eco la promessa di Gesù nel Vangelo che rimanda invece alla fine della storia: ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo. È come se lungo tutta la storia dell’umanità, dal primo all’ultimo istante, Dio abbia voluto tracciare un cammino che conducesse l’uomo alla comunione con Lui. Celebrare la festa della Trinità, allora, significa ripensare questa storia per riconoscere in essa il desiderio di Dio di farsi conoscere, di entrare in relazione con noi, di rivelare a noi stessi che la nostra natura non è semplicemente una natura animale ma esprime in sé stessa una scintilla della natura divina. Non a caso Matteo collega l’ascensione di Gesù alla destra del Padre con la possibilità per tutte le genti di essere battezzate nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, cioè di essere associate intimamente al mistero trinitario. Significativamente Matteo osserva che, mentre i discepoli si prostrano in adorazione, evidentemente consapevoli della condizione di elevazione che Gesù stava per assumere, proprio allora essi vacillavano e dubitavano. Il contesto suggerisce che il loro dubbio non riguardava tanto la natura divina di Gesù, quanto appunto la sua natura umana. È come se i discepoli esitassero a credere veramente che quel Gesù che ascendeva al cielo e riprendeva il suo posto accanto al Padre ed allo Spirito Santo, potesse essere ancora veramente uno di noi, uomo a tutti gli effetti. E in tal senso che si spiega la reazione di Gesù che è quella di farsi vicino agli 11 e ai loro dubbi. L’avvicinarsi di Gesù e il promettere loro di essere con loro tutti i giorni fino alla fine del mondo è un modo di sottolineare che Lui non ha deposto la sua natura umana e che anche noi quindi possiamo davvero sperare di diventare figli nel figlio. Eredi di Dio, aggiunge Paolo, coeredi di Cristo. Il discorso può sembrare altisonante e piuttosto astratto risvegliando anche in noi quel dubitare che caratterizzava gli 11 al momento dell’ascensione. È proprio questo il dubbio cui Paolo si riferisce quando dice che lo spirito di Dio testimonia al nostro spirito che abita un corpo di carne che siamo davvero figli di Dio. La testimonianza che lo spirito offre non è un semplice “suggerimento” o una sorta di proclamazione astratta ma propriamente un’energia. Essa, dunque, si manifesta come coraggio e in particolare come il coraggio di perseguire la libertà. Se infatti la paura è il sentimento tipico dello schiavo la confidenza e quindi il coraggio della libertà è il sentimento del figlio, di colui che in ogni circostanza, anche limitante, può gridare Abbà, Papà, e quindi affrontare ogni difficolta. Per interiorizzare questa consapevolezza bisogna riflettere attentamente sulla nostra esperienza quotidiana. Se rientriamo in noi stessi, spiega a San Paolo, noi ritroviamo innanzitutto i desideri della carne che spingono nella direzione dell’affermazione e della gratificazione di sé. Poiché questa è l’unica natura che conosciamo, non ci accorgiamo che questi desideri, che a noi sembrano i desideri normali della natura umana, in realtà nascono non da una natura “normale” ma da una natura indebolita e ferita perché dominata dalla paura: la paura di essere di meno degli altri, di fallire, di essere dimenticati, di rimanere soli, di mancare di qualcosa, di essere inadeguati. Alla fine, si tratta della paura di morire. Mentre, dunque, la morte testimonia al nostro spirito che la nostra natura non è libera ed è destinata alla sottomissione e quindi alla corruzione, lo Spirito Santo offre al nostro spirito una testimonianza esattamente contraria. Lo spirito santo testimonia al nostro spirito che quella stessa carne che di fatto è sottomessa come schiava alla morte e alla corruzione, proprio quella carne, per la partecipazione al mistero pasquale di Cristo, è chiamata a trovare uno spazio in Dio, a condividere la natura divina, a crescere nella libertà dei figli di Dio. Occorre solo permettere ai desideri dello Spirito Santo di guidarci, di emergere e lentamente prevalere su quelli ingannevoli della nostra vecchia natura ferita e solitaria, cioè senza padre. Occorre lasciarsi condurre con fiducia nella direzione di una vita che non è più vissuta in termini individualistici ma in termini di figliolanza e di comunione. Non temete, allora, conclude San Paolo, di anticipare la morte dei desideri della carne. La loro morte è la morte del nostro individualismo. La conseguenza di questa morte non è una fine ma una rinascita della nostra natura più vera che è quella di essere persone in relazione e persone di comunione. Allora cominciamo a cercare la vita non più “in noi stessi” o nella realizzazione di noi stessi ma piuttosto nella relazione, nella costruzione di legami di comunione, nella ricerca continua dell’unione con il Padre in Gesù figlio. In questo modo ritroviamo la pienezza e la verità della nostra natura umana che è quella di essere un riflesso del mistero trinitario.