Siamo ormai vicini alla Settimana Santa, oppure, con un modo di presentare questa occorrenza secondo la mentalità biblica: la Settimana delle Settimane. In ebraico infatti il superlativo assoluto si fa anche ripetendo il termine. Dalla Domenica delle Palme alla festa di Pasqua vivremo una settimana di una intensità senza pari, perché celebreremo il mistero pasquale del Signore Gesù.
Ma martedì 19 marzo, penseremo a san Giuseppe, lo sposo della Vergine Maria, madre di Gesù. Quindi san Giuseppe è anche il padre di Gesù, secondo la legge, ed è stato pertanto anche il suo educatore. Quale è stato il ruolo di san Giuseppe? Come sposo di Maria Vergine, l’ha salvata dalla condanna a morte, spesso con la lapidazione, secondo la legge mosaica (Levitico 20, 10) , perché da fidanzata era rimasta incinta, anche se per opera dello Spirito Santo (Matteo 1, 20). Poi san Giuseppe, essendo discendente di Davide, assicura a Gesù il legame con il suo antenato, come avevano predetto i profeti (Salmo 132, 11 e Isaia 11, 1-2). Ma poi san Giuseppe è l’educatore di Gesù. Papa Francesco, durante l’udienza generale del 19 marzo 2014, così si è espresso: “Crescere in età, crescere in sapienza, crescere in grazia (Luca 2, 52): questo è il lavoro che ha fatto san Giuseppe con Gesù, farlo crescere in queste tre dimensioni… La missione di san Giuseppe è certamente unica e irripetibile, perché assolutamente unico è Gesù. E tuttavia, nel suo custodire Gesù, educandolo a crescere in età, sapienza e grazia, egli è modello per ogni educatore, in particolare per ogni padre”. Per questo oggi, festa di san Giuseppe è anche la festa dei papà: tanti auguri!
Ma veniamo al Vangelo di oggi (Giovanni 12, 20-33); questo testo ci introduce alla seconda parte del Vangelo di Giovanni. La prima parte si conclude con la risurrezione di Lazzaro a Betania (Giovanni 11, 1-54). Questa seconda parte del Vangelo di Giovanni è denominata anche il “libro dell’ora”. E’ cioè il tempo della morte tragica di Gesù ed è anche il momento della sua glorificazione. Per tutti è l’ora della salvezza e della vita, donate all’umanità tutta intera (nel testo si parla di Greci, dei pagani; ma è una metonimia), non solo al popolo eletto.
“C’erano dei Greci” (Giovanni 12, 20), dei non Israeliti. Anche a loro si estende il regno del Messia (Zaccaria 9, 10). Si rivolgono a Filippo e a Andrea, che hanno dei nomi greci e quindi presumibilmente conoscevano quella lingua e avevano dimestichezza con le usanze dei non Giudei. “Vogliamo vedere Gesù” dicono. Vedere significa conoscere, aderire, credere. Esprimono il loro desiderio a Filippo e non direttamente a Gesù. Sono Greci, pagani, cioè non Israeliti, come quasi tutti noi, e accederemo a Gesù mediante i suoi discepoli, che continueranno la missione del Cristo nella storia. “Vogliamo vedere Gesù”: non si tratta di avvicinarsi alla persona, ma grazie alla fede, scoprire la gloria del Dio amore, che si manifesta sulla Croce. E’ sulla Croce che il Figlio dell’uomo (= Gesù) viene glorificato, perché lì rivela Dio come Dio, cioè si scopre la vera gloria del Dio amore. Questo è un mistero di fecondità, come il chicco di grano che muore. Ma proprio nella morte, il chicco di grano manifesta la sua forza vitale, perché produce molto frutto. Così il Figlio dell’uomo, innalzato da terra, e cioè crocifisso, attira a sé tutti gli uomini e comunica loro la sua vita di Figlio. Continuiamo a considerare la metafora del chicco di grano: se il Figlio unico, morendo, non comunica la propria vita ai fratelli, rimane solo. In questo modo non sarebbe più Figlio di Dio, perché non vivrebbe più nell’amore del Padre. Il Padre infatti ama tutti i suoi figli. Gesù deve fare lo stesso. Non può restare solo, perché l’egoismo è sterile. Una vita che non si dona appunto è morta. E questo vale anche per la nostra esperienza umana, particolarmente nel matrimonio. Se l’uomo non si dona per amore alla donna di sua scelta, resta solo e sterile. Solo nel dono reciproco dei coniugi si manifesta la fecondità, generando dei figli. Questo è il progetto di Dio. Questo vale anche per la nostra vita di fede, come discepoli di Gesù.
Il profeta Isaia parlava del Servo del Signore “onorato, esaltato e innalzato” (Isaia 52, 12), così Gesù, nel dono della sua vita sul legno della Croce, manifesta la Gloria di Dio. Cioè contemplando il Cristo sulla Croce, scopriamo l’amore infinito del Padre e finalmente sperimentiamo la verità che ci libera. “Attirerò tutti a me” (Giovanni 12, 32) dice Gesù, parlando di se stesso innalzato sulla Croce. Possiamo scoprire la nostra salvezza, guardando la Croce, perché è là che conosciamo l’amore del Padre. Se non accettiamo l’amore del Padre verso ciascuno di noi, entriamo nelle tenebre, perché rifiutiamo l’amore di Dio; non ci riconosciamo come figli e non guardiamo gli altri come fratelli e sorelle, come in realtà lo sono, grazie alla Croce di Cristo.
San Daniele Comboni (secolo XIX) credeva fermamente che l’opera della “Rigenerazione della Nigrizia” avrebbe avuto una fine lieta, grazie alla Croce del Cristo. Così egli scriveva al Cardinale Alessandro Barnabò, Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, il 25 settembre del 1868: “Già vedo e comprendo che la Croce mi è talmente amica e mi è sempre così vicina che l’ho eletta da qualche tempo come mia sposa…. Con la Croce di Gesù non temo nessuna difficoltà”.
E’ la logica del chicco di grano: dalla morte alla vita; dalla Croce alla Risurrezione.
Tonino Falaguasta Nyabenda
Missionario Comboniano
Vicolo Pozzo 1
37129 V E R O N A

