Padre Luigi Consonni

Prima lettura (Is 55,6-9)

Cercate il Signore, mentre si fa trovare,

invocatelo, mentre è vicino.

L’empio abbandoni la sua via

e l’uomo iniquo i suoi pensieri;

ritorni al Signore che avrà misericordia di lui

e al nostro Dio che largamente perdona.

Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,

le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.

Quanto il cielo sovrasta la terra,

tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,

i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

 

L’esortazione del profeta – “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” – è rivolta a chi ha perso il contatto e il rapporto con il Signore, probabilmente sfiduciato, defraudato e deluso dalla sua “assenza”. È anche possibile che la causa sia la disattenzione, la superficialità, il disinteresse nei riguardi delle esigenze dell’Alleanza, che declinano il corretto rapporto con il Signore.

Il profeta si propone di rianimare e dare motivo e stimolo per ricostruire ciò che è andato perso. La loro condizione non è irrimediabile né definitiva, c’è la possibilità di porvi rimedio.

Due sono le condizioni che il testo indica.

La prima riguarda l’empio e l’uomo iniquo. L’empio agisce come se la Legge non esistesse, e non vuole saperne del Signore (diremmo oggi l’ateo pratico, riprovevole per il credente). L’iniquo, invece, macchina in sé pensieri, propositi e azioni che sviliscono la giustizia e il diritto – capisaldi dell’Alleanza e fondamento della Legge – a vantaggio proprio e a svantaggio degli altri – danneggiando il singolo e la collettività.

Pertanto, esorta il profeta, “L’empio abbandoni la via e l’iniquo i suoi pensieri”. Il cammino dell’empio e i pensieri dell’iniquo sono contrari alla condizione di membro del popolo eletto. Per l’empio si tratta di ritornare all’Alleanza con il Signore e seguire il cammino indicato, la cui meta è il regno di Dio, regno di pace e armonia con tutti e con tutto.

L’iniquo abbandoni i pensieri, le macchinazioni e le furberie nei confronti della Legge, sfruttata a proprio vantaggio e in detrimento del diritto e della giustizia di altri. L’accoglienza della Legge, e lo spirito di essa, declina l’etica e il comportamento adeguato ai termini dell’Alleanza.

È l’opportunità per l’empio e l’iniquo di attivare il processo di conversione: “ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”, momento favorevole per sperimentare la sua bontà e il suo amore. E il Signore lo accoglierà con la misericordia e il perdono – il suo infinito amore – ristabilendo la comunione e l’amicizia e donando vita in abbondanza.

La seconda condizione riguarda la causa nell’aver intrapreso il cammino errato, nel farsi coinvolgere e guidare i propri pensieri, i propri interessi, dalla seduzione di altre proposte, sottovalutando e non prendendo in considerazione quelle del Signore.

Perciò il profeta specifica l’orizzonte incommensurabile del Signore, in modo che l’empio e l’iniquo prendano in corretta considerazione la Sua realtà: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie”; e per dare un’idea della differenza fra loro e il Signore questi afferma: “Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”.

Il processo di conversione, in primo luogo, richiede il distacco da sé stessi e andare oltre le proprie idee e i propri pensieri. È la pratica che deriva dalla coscienza dei limiti, dall’insufficienza del pensiero e degli orizzonti di comprensione distanti uno dall’altro.

Al riguardo, sia nell’empio che nell’iniquo, è fondamentale riscattare l’umiltà riguardo il proprio punto vista che è, semplicemente, la vista di un punto. E, allo stesso tempo, recuperare la memoria, l’attenzione e l’accoglienza delle parole e dell’azione del Signore nella storia e il cammino d’Israele, verso -e- nella terra promessa.

In secondo luogo, è attenzione alle condizioni dell’alleanza e dei mezzi per attualizzarla nelle condizioni della vita delle persone e del popolo, evitando di attribuire al Signore ciò che è semplicemente il proprio pensiero, desiderio o volontà. Certamente, per entrare nel cammino del suo amore misericordioso, estensivo all’umanità, occorre intuizione, creatività, coraggio e l’intelligenza della fede per elaborare le sintesi tra la complessa attualità e la filosofia indicata dal Signore.

D’altro canto lo stesso atteggiamento del Signore, riguardo l’empio e l’iniquo, è modello di riferimento che non abbandona, non allontana il peccatore, anzi propone il cammino per ravvedersi. E, punto secondo, lo fa in nome della misericordia, del perdono, al fine di riammetterlo alla comunione con sé, come afferma il Signore per mezzo del profeta Osea: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6).

La conoscenza Di Lui è il procedere in modo corretto, con attenzione, per non lasciarsi prendere dai desideri di ricchezza, prestigio, potere, ecc.

A tal riguardo occorre la determinazione di Paolo indicata nella seconda lettura.

 

Seconda lettura (Fil 1,20-24.27)

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.

Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.

Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

 

La conclusione del brano contiene l’esortazione di Paolo alla comunità: “Comportatevi dunque in modo degno del Vangelo di Cristo”. Ora, con la Nuova Alleanza, i pensieri e le vie del Signore non sono distanti “come il cielo sovrasta la terra” della prima lettura, ma cielo e terra sono uniti nella persona del Cristo, con la sua vita, la predicazione e l’azione pastorale e, infine, con la sua morte e risurrezione che ha divinizzato l’uomo e umanizzato Dio.

Il contenuto specifico del Vangelo suscita una simbiosi in ogni credente, per la quale la buona notizia del Vangelo è buona realtà nel vissuto individuale, con ricaduta della stessa nella dinamica sociale e la cui verifica è costituita dalle beatitudini.

Importante non è solo l’esistenza fisica, ma la qualità e il senso di essa. Vivere all’altezza del Vangelo presuppone l’identificarsi con la persona di Gesù, e fare propria l’azione per l’accoglienza dell’avvento del regno di Dio, consapevoli di quel che comporta in termini di conversione, audacia, coraggio e creatività.

Il processo d’identificazione, attività propria dell’evangelizzazione, trova il modello nella persona di Paolo che afferma: “Per me, infatti, vivere è Cristo”. Identificare Cristo – Gesù glorificato – come vita propria, senza aggiungere altro, testimonia il livello di unione e la dinamica inesauribile della crescita nella pienezza di vita, essenza e radice del proprio essere.

La meta è raggiungibile nel percorrere il binario composto, da un lato, dalla rotaia della solitudine (dovuta al fatto di andare contro corrente rispetto alle aspettative comuni consolidate dalla tradizione) e, dall’altro, da quello della comunione con Dio, per la fede negli effetti della morte e risurrezione di Cristo.

La forza motrice di tale processo è lo stupore, il fascino, che sorreggono l’evangelizzazione, la passione per la verità e il bene per tutti indistintamente; in altre parole, l’accoglienza dell’avvento del regno di Dio, della sua sovranità che coinvolge la persona e la comunità credente.

Ne deriva che “Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia”; in altre parole, che accada quel che accada, il suo corpo, la sua esistenza, la sua vita è intrisa della gloria del Risorto, nella convinzione che né la vita né la morte potrà separarlo da Lui, come afferma lo stesso Paolo in un altro brano.

L’identità dell’apostolo con Cristo è così profonda e solida da affermare: “Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno”. Emerge l’unione fra presente e futuro e la glorificazione del corpo nel presente, anticipo della pienezza di gloria; e che testimonia come il presente e il futuro siano uniti l’uno nell’altro, realtà distinte ma inscindibili.

È tracciato così il de-stino inteso non come meta ultima e definitiva dell’esistenza, ma come “ciò che sta” – Il “de-” è intensificativo dello “-stino /”stare”, che non si lascia scuotere da alcun’altra forza. È l’eterno già presente (vedi Emanuele Severino), partecipazione del mistero di Dio che non ha comparazione con il tempo che trascorre verso la meta, dato che il destino è disposto a sopportare ogni sofferenza e sacrificio.

Ecco presentarsi il dilemma: “ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”; non prevale in lui il desiderio personale ma il senso di solidarietà, fraternità e responsabilità verso il prossimo, in virtù del coinvolgimento nell’amore trinitario, orizzonte dell’evangelizzazione.

È proprio il contrario dei lavoratori della prima ora presentati nel vangelo.

 

Vangelo (Mt 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

La parabola è ben conosciuta, soprattutto per lo sconcertante finale che sconvolge il punto di vista fondato sul criterio umano riguardo la retribuzione dei lavoratori.

Un padrone di casa uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno”. La vigna, nel mondo ebraico, rappresenta Israele, quindi è il richiamo a Israele e la paga è quella di un’intera giornata di lavoro, un denaro al giorno.

Verso le cinque della sera, a un’ora dal termine della giornata, il padrone “vide altri che se ne stavano lì e disse loro: ‘Perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente? Gli risposero: ‘Perché nessuno ci ha preso a giornata. Ed egli disse: ‘Andate anche voi nella vigna’”. Quest’ultimo invito a lavorare non è perché c’è bisogno di operai nella vigna (ormai è la fine della giornata) ma il desiderio del padrone di far lavorare anche coloro che non hanno trovato lavoro, forse anche per il prevalere in loro della pigrizia, motivata con il “nessuno ci ha preso”.

Alla sera, al momento della paga, emerge la protesta degli operai della prima ora nei confronti del padrone: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Protesta condivisibile secondo il giudizio corrente che riterrebbe di trovarsi di fronte a un’ingiustizia. Come si può compensare con la stessa paga quelli che hanno lavorato un’ora e quelli che hanno lavorato tutto il giorno. Chi non protesterebbe in circostanze simili?

Il padrone non corrisponde meno ai primi per dare di più agli ultimi, paga esattamente lo stabilito e, quindi, non si tratta di ingiustizia. Il padrone, irritato risponde: “Prendi il tuo e vattene”, e argomenta: “Amico, io non ti faccio torto, non hai forse concordato con me per un denaro?”.

E aggiunge: “io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?”. Il padrone è cosciente di ciò che fa; la sua decisione è libera dalle considerazioni presentate dagli operai della prima ora, pur se costoro ritengono giusto e retto uno stipendio maggiore.

Ma il padrone sa che la sua decisione suscita rimostranze e va oltre: “io voglio (…) non posso fare con le mie cose quello che voglio?”. Va oltre il criterio degli operai in nome della bontà, anche se ciò appare come un’ingiustizia verso gli operai della prima ora.

Poi passa al contrattacco: “Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Il testo non riporta la reazione degli operai, se hanno compreso o meno. Rimane, anche per noi, la difficoltà di decifrare il rapporto fra invidia e bontà.

Solo nell’orizzonte dell’avvento della sovranità di Dio, della causa del Regno, si comprende tale atteggiamento. Per “Regno di Dio” si intende il mondo governato direttamente da Dio. E Dio non governa emanando delle leggi che gli uomini devono osservare, ma comunica la sua capacità d’amore. Il pensiero va all’accoglienza del figlio prodigo, che torna alla casa del Padre con una motivazione non proprio esaltante, anzi …

La bontà del padrone ha suscitato l’invidia degli operai della prima ora perché quelli dell’ultima ora guadagnano la stessa paga, con molto meno lavoro e fatica: “Quest’ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.

Ma tutto è dovuto alla bontà del padrone, che loro non conoscevano e di cui non condividono il comportamento. Se l’avessero saputo… L’invidia sorge per non aver ottenuto il vantaggio di quelli dell’ultima ora per l’eccessiva – e ingiusta? – bontà del padrone.

Allora vale la pena lavorare nella vigna del Signore fin dalle prime ore del mattino? Non è meglio aspettare, oziosi come gli operai dell’ultima ora? La rottura della logica del rapporto merito-retribuzione direbbe che sì. Ma seguire la filosofia dell’invidia porta a sfruttare e approfittare della bontà del Signore, che non sintonizza con l’accoglienza dell’avvento del Regno né con il corretto rapporto con Lui. Essa è distante dalla misericordia e dalla magnanimità del padrone, attenta al bisogno degli ultimi di portare a casa il necessario per la famiglia.

Il motivo dell’intervento di Gesù è il Regno: “Il regno dei cieli è simile…”. Il messaggio trasmette la certezza che il regno è alla portata di tutti, anche di coloro che vi aderiscono all’ultimo momento, perché la salvezza è necessaria per tutti.

Non è questione di entrare prima o dopo, né di merito, ma di entrare e lavorare per la causa del regno: non rimanere fuori e incontrare la salvezza. È difficile per la mentalità corrente slegare la salvezza dal merito, ma è ciò che fa la differenza fra Dio e gli uomini.

Avverte la prima lettura che i pensieri e le vie del Signore non sono quelli degli uomini. Dio è come il padrone, come il padre del figlio prodigo. È gratuità magnanima, che va oltre ogni condizione e aspettativa umana, e che non deve essere sfruttata né sottovalutata, pena l’esclusione dal regno. Il regno è lo spazio dell’amore degli uni verso gli altri, come Gesù ha amato secondo l’attesa e la logica del Padre.

La parabola è un invito alla conversione in tale direzione.