Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

In questa 25° domenica del Tempo Ordinario siamo invitati a cercare e a capire il vero atteggiamento di Dio nei nostri riguardi. Dobbiamo cercare con interesse, magari con amore, come suggerisce anche il Cantico dei Cantici: “Mi alzerò e farò il giro della città… Voglio cercare l’amore dell’anima mia” (Cantico dei Cantici 3, 2). La nostra ricerca può assomigliare in qualche modo a quella degli innamorati. Dio infatti non si scopre con la filosofia, con la scienza, con la psicologia umana. Troviamo il volto di Dio solo se, nella sua parola proclamata, scopriamo il suo riflesso e andiamo oltre le apparenze, come ha spiegato Dio stesso al profeta Samuele, quando si trattava di scegliere Davide fra tutti i suoi fratelli: “Non guardare al suo aspetto… perché non conta quello che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma Dio vede il cuore” (1 Samuele 16, 7). E san Paolo spinge la sua ricerca fino ad affermare che morire è un guadagno (Filippesi 1, 21) per poter entrare nella visione, faccia a faccia, con il Cristo di Dio. Difatti per noi, come per san Paolo, la vera vita si può vivere solo dove vive la Persona di cui si è innamorati, cioè Gesù Figlio del Padre. Per questo i Cristiani non dovrebbero avere paura della morte; desiderarla addirittura è segno di maturità della fede, perché essa è l’ingresso nella visione faccia a faccia del Dio-Trinità.

La parabola della vigna, che troviamo nel Vangelo di oggi, ci fa capire come Dio si comporta con noi, che siamo gli operai di questa vigna (cioè tutti noi discepoli di Gesù, ma prima di tutti gli Israeliti, che sono stati chiamati prima degli altri. Comunque tutti siamo figli di Abramo, grazie alla nostra fede). Possiamo leggere anche fra le righe di questo testo lo stupore della prime generazioni cristiane dinanzi al rifiuto degli Ebrei di accettare Gesù come il Cristo.

Il regno dei Cieli (= di Dio) è simile a un uomo… che uscì all’alba, per assoldare operai per la propria vigna” (Matteo 20, 1).

Marc-François Lacan (1908-1994), biblista francese, ci spiega il significato della vite nella cultura biblica. E’ per questo che Gesù la utilizza nella sua predicazione, anzi dice addirittura di essere lui stesso come la vite (Giovanni 15, 1). L’albero della vite è prezioso, e ha qualcosa di misterioso. Non ha valore che per il suo frutto. Il suo legno non serve per le costruzioni (Ezechiele 15, 2-5). Il suo frutto però rallegra dei e uomini (Giudici 9, 13). La vite, rispetto a tutte le altre piante, nasconde un mistero profondo. Se apporta gioia nel cuore dell’uomo (grazie al suo vino), il suo frutto, con la sua azione, ci fa capire la gioia della comunione con Dio.

I destinatari di questa parabola sono gli operai della prima ora, e cioè gli Israeliti, chiamati per primi. Essi sono invitati a non prendersela con il padrone, se egli dà agli ultimi chiamati lo stesso salario che ha dato ai primi (= un denaro è la paga giornaliera data comunemente a un operaio ai tempi di Gesù). “Il Figlio dell’uomo – ha detto Gesù nel caso di Zaccheo – è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Luca 19, 10).

L’entrata nel Regno di Dio, cioè la salvezza, non è un pane frutto del sudore, cioè del lavoro e dello sforzo personale, ma è il dono del Padre ai suoi figli; è Egli stesso, amore gratuito per tutti e per ognuno di noi. Alla fine della giornata (cioè all’undicesima ora, che corrisponde alle ore diciassette. Al tempo di Gesù, il tramonto era la fine del giorno), il padrone chiama chi non è stato ancora ingaggiato. Resta poco tempo, ma bisogna darsi da fare “per convertirsi e portare frutto”. Finito il giorno, è finita la fatica, è l’ora di ricevere la ricompensa. Tutti ricevono un denaro, la paga pattuita con i primi operai.

La scena della retribuzione comincia dagli ultimi. Perché? Perché il Signore vuole darci una bella lezione, che i primi operai devono capire. Secondo la giustizia distributiva, che noi pratichiamo abitualmente nella società moderna, il padrone della vigna è in difetto, perché non paga i suoi operai secondo il tempo di lavoro e la fatica. Ma il Signore è giusto, perché dà la paga pattuita, e cioè ciò che è necessario alla vita di ogni giorno. Ma la paga (la stessa: un denaro) la ricevono tutti.

Il Signore certamente è giusto, ma è anche misericordioso. E questo noi facciamo fatica a capirlo. Che cosa può dare Dio se non quello che è, cioè amore? Dio infatti è amore (1 Giovanni 4, 8). Di che cosa vive l’uomo se non dell’amore del Padre?

Vedendo il comportamento del padrone e avendo ricevuto un solo denaro (= quello pattuito) i primi “brontolavano” (Matteo 20, 11). Il biblista Silvano Fausti (1940-2015) fa questo commento: “L’inferno del giusto è vedere che Dio è misericordia anche con gli ingiusti… La ricompensa giusta, per Lui e per noi, è farci conoscere Lui come Padre di amore e noi come suoi figli amati”.

San Daniele Comboni (secolo XIX) è sempre stato pronto a lavorare nella vigna dl Signore, per piantare la Chiesa nell’Africa Centrale. Così scriveva a p. Henri Ramière, apostolo della devozione al Sacro Cuore di Gesù, da Khartoum, il 12 luglio del 1878: “Sono felice, grazie alle sue preghiere, di raccomandare al Sacro Cuore di Gesù gli interessi più preziosi della mia laboriosa e difficile Missione, alla quale ho votato tutta la mia anima, il mio corpo, il mio sangue e la mia vita!”.