Padre Vincenzo Percassi

Tutti prima o poi sperimentiamo di aver raggiunto il limite di sopportazione nei confronti di una persona molesta. Allora, come Pietro, ci chiediamo quando uno può finalmente porre un limite al peccato dell’altro. Sorprendentemente Gesù suggerisce che invece di porre un limite al peccato dell’altro occorre togliere ogni limite alla misericordia: perdona fino a settanta volte sette. Per noi è difficile comprendere questo insegnamento di Gesù perché non comprendiamo pienamente quanto ferita dal peccato sia la nostra libertà e quella dell’altro. La differenza enorme tra il cuore del padrone della parabola e quella del servo malvagio è la differenza tra una grande libertà amante e una piccola libertà egoista. La prima è una libertà sovrana, come quella di Dio, che pure non esita a sottomettersi all’amore e quindi a dare precedenza al bene dell’altro. La seconda è una libertà prigioniera di sé stessa, ferita, perché incapace di volere nient’altro che il proprio interesse. Dammi quello che mi devi, chiede il servo malvagio al suo compagno. Questo lo supplica di attendere un poco ma l’altro, dice il Vangelo, semplicemente “non volle”. Senza ragioni. Il rischio di questo indurimento della volontà e quindi di questa deformazione della nostra libertà non è un’eccezione. Ognuno di noi, ricorda il Siracide, può aprire il cuore al rancore e all’ira in maniera tale che questi lo occupano. Ma un cuore occupato dall’ira e dal rancore non è più libero di amare. E ancor peggio non vede più il proprio limite e la propria dipendenza da Dio. Perdona, continua il Siracide, perché anche tu hai bisogno di chiedere perdono. Ricorda che i tuoi peccati non sono stati da te espiati. Essi ti sono stati perdonati gratuitamente. Come puoi esigere dagli altri ciò che Dio non ha esatto da te. È proprio quello che fa il servo della parabola che, lasciato libero di andarsene, dimentica che lui stesso era stato venduto come schiavo con tutta la sua famiglia e che la libertà di cui gode gli è stata affidata. Anche noi facilmente dimentichiamo che eravamo – dirà San Paolo – come schiavi venduti al peccato. Cioè, persone che non possedevano più la loro libertà e che sarebbero state destinate a rimanere per sempre schiave della morte se qualcuno non avesse acquistato il loro debito. È Cristo, appunto, che morendo per noi ha acquistato il nostro debito. E tornando alla vita ha sostituito quel debito che ci apparteneva con la sua grazia che adesso coopera con noi e con la nostra libertà. Non apparteniamo più a noi stessi ma a lui. Solo se impariamo ad amare la libertà di Cristo più della nostra stessa libertà diventiamo capaci di uscire da noi stessi e dai nostri mille piccoli egoismi di ogni giorno; solo così la nostra libertà abusiva che strangola l’altro diventa una libertà amante che sa morire per l’altro. Anche quando l’altro nella sua libertà abusiva non sa quello che fa. Come avrebbe potuto il servo insolvente della parabola accumulare un debito così sproporzionato se non perché il padrone non ha mai posto un limite alla libertà di quel servo, anche se ciò evidentemente lo danneggiava. Come spesso accade, questi scambia la bontà generosa del padrone per ingenuità e invece di lasciarsi toccare e cambiare ne approfitta lasciando crescere il debito. Eppure, che strano: il padrone si commuove ugualmente dinanzi alla supplica del servo. Questi invece di chiedere misericordia non teme di fare una promessa che sa bene di non poter mantenere e che probabilmente aveva fatto tante altre volte in precedenza: dammi tempo e ti ripagherò ogni cosa. Non sembra ne sincero né consapevole del fatto che il suo debito è ormai impagabile. Il padrone rinuncia ad ogni giudizio e va oltre tutto questo e lo asseconda semplicemente “perché glielo ha chiesto”. Come fa tante volte il signore con noi quando confessiamo distrattamente le cose che rifaremo poi poco più tardi. Non solo. Il servo insolvente domandava una semplice dilazione del suo debito ed ecco che il padrone, invece, glielo condona completamente senza condizioni. Lo lascia andare anche se inconsapevole del molto bene ricevuto. Ciò che condannerà il servo non è la severità del padrone ma la sua stessa cattiveria che lo porta ad esigere da un altro suo compagno ciò di cui aveva chiesto dispensa per sé stesso. Il padrone è arrabbiato ma non revoca il suo perdono e quindi non domanda che il servo sia venduto come schiavo con tutta la sua famiglia come nella sentenza originaria. Lo affida agli aguzzini affinché non ripaghi il suo debito. Non il debito a lui dovuto che rimane impagabile, ma il debito che lui doveva a quelli che come lui non perdonano. Lo sottopone a quel metro di giudizio che lui stesso aveva adottato con il suo compagno. Perché diventi consapevole che l’unico limite che può essere posto alla misericordia di Dio verso di noi è quello che ciascuno decide di porre alla propria misericordia verso gli altri. “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.”