Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

In questa 24° domenica del Tempo Ordinario siamo invitati a meditare sul perdono, a imitare Dio che perdona sempre, perché appunto il suo nome è “amore-misericordia”.

Il Vangelo di oggi (Matteo 18, 21-35) è la parte conclusiva del quarto discorso di Gesù, di cinque pronunciati nel primo Vangelo. Come sappiamo, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè (che è l’autore della Torah o Pentateuco = i 5 primi libri dell’Antico Testamento). Per questo il Rabbi di Nazareth pronuncia 5 discorsi. Il quarto riguarda la comunità dei discepoli con tutti i vari problemi che il vivere insieme comporta.

Leggiamo nel Vangelo di oggi che Pietro fa una domanda precisa: quante volte siamo tenuti a perdonare? Secondo i rabbini (= specialisti della Legge mosaica) si poteva perdonare fino a tre volte. Nella Bibbia si racconta la storia di Lamech, discendente di Caino (Genesi 4, 23-24). Per lui l’offesa doveva essere vendicata in maniera spaventosa: “Ho ucciso un uomo – dice lo stesso Lamech – per una mia scalfittura… Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. E’ cioè la vendetta senza limiti. Mosè ha regolato la questione con la legge del taglione. “Se uno farà una lesione al suo prossimo (si legge nel libro del Levitico), si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente!” (Levitico 24, 19). Questa legge è già un grande progresso rispetto alle esigenze vendicative di Lamech.

Ma Gesù va ben oltre per la sua comunità. La parabola dei due debitori, narrata dal brano evangelico odierno, ci parla del perdono e di come deve essere vissuto nella comunità dei discepoli di Gesù. Un servitore di un re aveva un debito enorme (= diecimila talenti corrispondono a 300.000 chili d’oro). Ma il re glielo condonò, perché non aveva nulla da restituire. A sua volta questo servitore fece gettare in prigione un suo compagno, che gli doveva solamente cento denari (= corrispondenti a cento giornate lavorative di un operaio). Quindi un debito molto piccolo. Il re, saputa la cosa, trattò il suo dipendente come servo “malvagio”. Troviamo la stessa parola nel Padre Nostro: malvagio allora è colui che non è capace di perdonare. Tra i discepoli di Gesù deve vigere lo stesso modo di operare, cioè chi è stato perdonato non può non perdonare a sua volta (leggi Matteo 7, 12).

Jean Giblet (1918-1993), biblista belga, ci spiega come il giusto (cioè il discepolo di Gesù) deve prendere come modello la misericordia di Dio (Sapienza 12, 19 e 22). Gesù si inserisce in questo insegnamento e ci invita a chiedere perdono a Dio, dopo aver perdonato al proprio fratello. Lo ripetiamo infatti nella preghiera del Padre Nostro.

Ma bisogna andare più avanti e più lontano, per la vita del discepolo. Gesù infatti presenta Dio, suo Padre, come modello di misericordia (Luca 6, 35) e noi siamo invitati a imitarlo per essere suoi veri figli. “Avete inteso che fu detto – ci spiega Gesù: – Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico (Deuteronomio 19, 18 e salmo 139, 21-22). Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Matteo 5, 43).

Il perdono è uno degli elementi essenziali della nuova vita del vero discepolo di Gesù. Per questo il Signore comanda a Pietro di perdonare “sempre”, senza stancarsi mai. Il Cristiano pertanto deve perdonare sempre, e perdonare per amore come Gesù (Colossesi 3, 13) e come si comporta Dio Padre (Efesini 4, 12). In questa risposta il Signore si ispira al profeta Daniele (VI secolo), il quale parla di un “consacrato senza colpa in lui” che sarà soppresso (Daniele 9, 26). Si tratta della celebre profezia delle 70 x 7 settimane. Gesù vuole affermare che ormai è giunta l’ora della ricostruzione della nuova Gerusalemme (= il Regno di Dio) sulla base del perdono e della grazia, ad opera del Messia (= Cristo). Il Messia, il giusto consacrato e immolato senza colpa, è l’inauguratore dell’anno di grazia, come Gesù stesso ha dichiarato a Nazareth (Luca 4, 18-19).

L’immolazione di questo Giusto è avvenuta sulla croce. La croce allora diventa l’altare del perdono assoluto, senza limiti, senza misure, che va al di là di ogni legame affettivo e che cancella ogni odio e ogni sopraffazione.

Grazie al perdono senza limiti, i Cristiani compiono la vera rivoluzione: lo scardinamento e la distruzione delle strutture di peccato (come affermava già Papa Paolo VI in “Evangelii nuntiandi” del 1975).

Dice giustamente il biblista Silvano Fausti (1940-2015): “Il fondamento del mio rapporto con l’altro è l’imitazione del rapporto che l’Altro (= Dio) ha con me: quanto il Signore ha fatto con me è principio di quanto io faccio con i fratelli e le sorelle”, tutti figli dello stesso Padre, il Dio di Gesù.

San Daniele Comboni (secolo XIX) poneva il perdono come una condizione indispensabile, perché i suoi Missionari, operanti nel suo Vicariato dell’Africa Centrale, potessero vivere in comunità evangelizzatrici. Così scriveva nelle Regole del suo ‘Istituto delle Missioni per la Nigrizia’ del 1871: “Ciascuno si fa dovere di chiedere presto e umilmente perdono a colui, cui s’accorga di avere in qualche modo recato offesa…. Ciascuno accetti di essere avvertito dei suoi mancamenti e difetti… con l’opportuna correzione fraterna”.