Padre Luigi Consonni
Prima lettura (Ez 33,1.7-9)
Mi fu rivolta questa parola del Signore:
«O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.
Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.
Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».
“O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele”. Il Signore si rivolge ad Ezechiele e gli conferisce la missione di vigilare su Israele, sul compimento e la fedeltà all’alleanza.
La sentinella ha una responsabilità di vita o di morte per il popolo, soprattutto di notte, quando il pericolo dell’attacco a sorpresa è maggiore. Deve tenere gli occhi bene aperti a tutto ciò che avviene e il suo compito è proteggere, avvertire e chiamare a raccolta i destinatari per difendere il popolo dal pericolo imminente.
Ezechiele riceve l’incarico di trasmettere la parola udita dal Signore: “Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia” (si riferisce alla parola in sintonia con la promessa e il compimento dell’alleanza). In quei tempi era facile far tacere chi diceva di parlare in nome di Dio e accusarlo di essere un falso profeta. Inoltre, il compito era pericoloso e forte era la tentazione di tacere.
Il destinatario – persona, comunità, popolo – è chi agisce e opera come se il Signore non esistesse; oggi diremmo l’ateo o l’agnostico (termini allora inconcepibili), ma anche l’indifferente, il disinteressato, l’autosufficiente egocentrico, rivolto verso sé stesso e le persone che condividono lo stesso stile di vita. È quello che il brano indica come malvagio.
Si prospettano due possibilità, con le relative conseguenze. La prima eventualità ha un esito negativo: “Se io dico al malvagio: Malvagio tu morirai, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte chiederò conto a te”.
Il motivo di questa ipotetica reticenza non è menzionato. Può capitare che il profeta venga a sapere da Dio che la rovina sta per colpire l’empio ma non lo avverte, non fa alcun tentativo per farlo recedere dal comportamento perverso. Oppure potrebbe essere la paura di persecuzione o, anche, solo la sfiducia di ottenerne la conversione. Nessuna scusa, comunque, è ritenuta valida per non intervenire.
Se il profeta viene meno al suo compito, la rovina si abbatterà comunque sul malvagio perché doveva sapere che, prima o poi, la sua malvagità sarebbe stata punita. Ma il profeta reticente e irresponsabile dovrà rendere conto a Dio stesso: è venuto meno al suo dovere, rendendo inefficace l’ultima possibilità offerta da Dio al malvagio.
La seconda eventualità ha invece un esito positivo, almeno per quanto riguarda il profeta: “Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato”. Se il profeta agisce a tempo debito e fa sapere al malvagio ciò che lo aspetta, e questi non si converte, allora la responsabilità è tutta del malvagio, ed egli soltanto ne pagherà le conseguenze dal momento che il profeta non è colpevole.
Il brano mette in luce la responsabilità del profeta e, indirettamente, di ogni credente nei confronti di coloro che sbagliano. La responsabilità e solidarietà verso il prossimo sono ineludibili dal punto di vista di Dio e, pertanto, spetta al profeta approssimarsi al malvagio, cercarlo con determinazione e non aspettare semplicemente che venga a lui spontaneamente. È la missione del profeta e di ogni cristiano.
Con quali sentimenti e con quale atteggiamento interiore disporsi per approssimarsi al malvagio? Quali sono i presupposti del corretto approccio? In primo luogo, occorre una buona dose di ottimismo, sufficiente per credere che, nel fondo di ogni persona, per quanto malvagia sia, c’è del bene, in virtù del quale attualizza con successo il proprio riscatto. Altrimenti è difficile compiere il primo passo.
È doveroso e ovvio evitare sentimenti o atteggiamenti da giudice. Non si tratta di giudicare ma di favorire la comprensione dell’errore, del proprio limite, in funzione del riscatto del bene che esiste in lui e che solo lui, con la grazia di Dio, può far emergere e prevalere.
L’inviato deve manifestarsi in modo sincero e trasparente, esprimersi con la serenità di chi procede con cuore libero, avvalendosi anche delle proprie esperienze, con l’intento di offrire argomentazioni pertinenti alla presa di coscienza del malvagio e suscitare, nel suo intimo, la realtà del riscatto per la consapevolezza del bene che giace in lui.
Il profeta non deve sottovalutare l’eventualità del rifiuto: “Ma se tu avverti (…) ed egli non si converte …”. Non per questo si consideri un fallito, nonostante il deludente risultato; l’effetto “boomerang” della sua azione fa crescere in lui la percezione del coinvolgimento nel mistero di Dio, dono per il quale “tu ti sarai salvato”.
Il processo passa attraverso la pazienza, l’umiliazione del rifiuto, nel credere che vale la pena affermare la verità del Signore e sperare nel futuro migliore, anche se la buona disposizione e il corretto agire non hanno raggiunto il risultato sperato. La vita vale se spesa nell’orizzonte dell’amore al prossimo.
Ci vuole coraggio e determinazione per vincere gli ostacoli.
La seconda lettura offre indicazioni al riguardo.
Seconda lettura (Rm 13,8-10)
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.
“Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno”. Debitore è chi deve qualcosa a qualcuno e, pertanto, è obbligato a comportarsi in modo che nessuno lo rimproveri per non averlo fatto o senta, dentro di sé, il rimorso per esser venuto meno al dovere e per il danno arrecato al destinatario.
C’è però qualcosa che non può sfuggire all’obbligo, ed è “l’amore vicendevole” per costruire, mantenere e sviluppare un giusto rapporto interpersonale e sociale nelle svariate situazioni, in virtù della grandezza, dell’estensione e della profondità dell’amore. È la dinamica che dà senso alla vita di ogni giorno. È come entrare in una spirale in continua espansione, per le circostanze, i mutamenti, i nuovi orizzonti di senso, generata dalla dinamica dell’amore nella quale si è coinvolti.
L’amore reciproco, nella misura in cui imita l’amore con cui Dio ama, pur crescendo qualitativamente e quantitativamente, abbraccia più persone nelle nuove circostanze, ma è sempre incompleto, parziale e deficiente per l’inesauribilità della sorgente e la novità delle circostanze.
In virtù della qualità del rapporto, Paolo afferma: “chi ama l’altro ha adempiuto alla Legge”, non per il raggiungimento della meta una volta e per sempre, ma come tappa del cammino che non ha mai fine.
L’osservanza della legge mosaica, cui si riferisce l’apostolo, “si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Essa si riconduce, acquista autenticità e compimento nella pratica dell’amore per lo specifico rapporto con Dio, come accennato sopra.
Mi è stato segnalato l’interessante commento a questo comandamento di uno studioso dell’ebraismo, Moshe ben Maimon, noto con l’acronimo di Rambam (Rabbī Mōsheh ben Maymōn). Esso offre delle considerazioni di rilievo che meritano attenzione, poiché sostituisce l’“il”, della seconda parte del comandamento, con “per”.
L’autore presenta questa traduzione: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte e tue forze, ed amerai per il tuo prossimo come per te stesso”. E aggiunge: “La legge non chiede di amare il prossimo, ci chiede di amare per il prossimo. In questa sottile differenza c’è forse tutta la Legge”.
“Amerai il” si riferisce solo a Dio, perché Dio ha amato per primo: “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio” (1Gv 4,10). Pertanto, l’amore è la risposta di chi ha contemplato e si è lasciato coinvolgere dall’amore di Dio, e percepisce sé stesso come una nuova creatura alla quale sono rimessi i peccati, è ristabilita la nuova ed eterna alleanza e partecipa della vita eterna, anticipazione della gloria futura.
Allora, amare il Signore per il tuo prossimo, non significa solo desiderare il bene per lui, ma far sì che, nella pratica dell’amore nei suoi riguardi, secondo lo stile e la filosofia di Gesù (“che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12), egli è reso consapevole del coinvolgimento nello stesso amore di Cristo e nel mistero di Dio.
La finalità “di amare il Signore (…) e amerai per il tuo prossimo” è far sì che il coinvolgimento del destinatario diventi motivo per coinvolgere altri nell’azione evangelizzatrice, in modo che la buona notizia del regno di Dio diventi buona realtà e così via, come la macchia d’olio in continua espansione.
Questo è, simultaneamente, il modo di amare sé stesso (“amerai come per te stesso”). Declinando il dono a Dio nell’amore per il prossimo, cresce la comunione e l’intimità con Dio, e l’evangelizzatore cresce dal punto di vista umano e spirituale nella Sua gloria. Il dono ricevuto e trasmesso è come il sangue nelle arterie: scorrendo in esse, non solo benefica tutto il corpo, ma le arterie stesse. La gratuità del processo fa dell’Amore il fine ultimo di ogni gesto e pensiero.
Pertanto, “amerai il Signore” significa mettere Dio al centro. “Amerai per il tuo prossimo come per te stesso” indica che i due sono beneficiati simultaneamente. In questo modo, Dio è Dio e l’uomo è l’uomo, glorificato dalla gloria di Dio.
Gloria che si declina nel comportamento corretto indicato dal vangelo.
Vangelo (Mt 18,15-20) – Adattamento dal commento di Alberto Maggi
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
“Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo”. Per Gesù è importante mantenere salda l’unione all’interno del gruppo e recuperare quelli che si smarriscono, si allontanano: questo è il compito della comunità. Quando ci sono fratture, perché ci sono state delle offese o dei comportamenti sbagliati, bisogna avvicinare l’altro per ricomporre l’unità.
L’iniziativa parte sempre dalla parte offesa, non da chi ha offeso, perché ci può essere l’umiliazione di dover andare a chiedere scusa all’altro e, anche il rischio che l’altro dica: non ti voglio più vedere, e così si raddoppia l’umiliazione. In questa maniera non si può costruire l’unità all’interno del gruppo.
Tuttavia, nella grande maggioranza dei casi succede il contrario: si commenta con tutti, eccetto che con l’interessato; e, generalmente, l’offeso aspetta che l’offensore si penta e chieda scusa. Il testo indica il contrario perché Gesù è interessato a che venga salvaguardata la dimensione comunitaria, altrimenti non c’è fraternità (comunità di fratelli) e l’offeso deve convincere e guadagnare il fratello. È un agire fuori dalla logica comune – dopo l’offesa devo andare a cercare l’altro? – ma si tratta dell’invito di Gesù alla comunità dei discepoli, affinché assuma lo stesso atteggiamento del Padre nei confronti degli uomini.
Occorre coltivare lo spirito fraterno con magnanimità di cuore e buon dominio delle proprie emozioni, nella speranza che l’offensore, nell’umiltà, riconosca il proprio agire e dia ragione del senso e dei motivi del suo comportamento. Si potrà, così, recuperare e consolidare il rapporto di fiducia fraterna: “Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello”.
Sono noti i fattori che induriscono il cuore e chiudono la persona su sé stessa, fino al punto da isolarsi, pur rimanendo nella comunità. È quello che il testo evidenzia come un pericolo, le cui conseguenze sanciscono il fallimento dell’intento di ricostruire il rapporto. Tutto dipende dalla consistenza, solidità e forza dell’amore insita nell’animo, sia da una parte che dall’altra.
“Se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.” Può succedere che il primo tentativo fallisca, perché la persona non intende ascoltare e non vuol rendersi conto di ciò che ha combinato. Però è importante che si parta sempre da un approccio privato: se questo non porta a un risultato, va bene cercare l’aiuto da parte di una o due persone. Non si tratta di portare qualcuno davanti a un tribunale, perché in questa maniera non si potrà mai guadagnare il fratello.
“Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come un pagano e un pubblicano.” Se il conflitto non porta, neanche in questo secondo tentativo, a un esito positivo, deve essere portato a conoscenza di tutta la comunità, chiamata in causa solo dopo che siano stati esperiti, senza successo, gli altri due tentativi.
Allora “sia per te come un pagano e un pubblicano”. Gesù si è seduto a tavola con i pagani e i pubblicani, li ha avvicinati. Pertanto, in questa situazione, l’amore sarà soltanto a senso unico: tu continuerai a rivolgere amore al fratello, anche se lui si chiude alla tua riconciliazione, per ristabilire armonia fra di voi.
Quando il fratello non ascolta e si rifiuta di comportarsi come tale, va considerato come un pagano e come un pubblicano, ma non è escluso dall’amore che sarà a senso unico, anche se di peso per la comunità. È il distintivo della comunità che continua a rivolgere amore e attenzione.
“In verità vi dico: tutto quello che legherete sulla terra, sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”. Sono parole già dirette a Pietro (16,16), e applicate, ora, a tutto il gruppo dei discepoli, a tutta la comunità. Si tratta del perdono concesso in anticipo, del perdono gratuito. Gesù dice: se voi sciogliete l’amore, viene sciolto anche in cielo nei vostri confronti. Compito fondamentale all’interno della comunità è perdonare sempre.
“In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro.” Gesù non parla della fiducia nella preghiera, su cui ha già istruito la comunità al capitolo 6; raccomanda qualcosa di molto più importante: la necessità dell’accordo comunitario prima della preghiera. Io non posso mettermi a pregare se non viviamo nella concordia; non ha nessun valore, non ha nessun risultato, non si può sperimentare la presenza del Signore se non c’è accordo.
Quest’insegnamento viene dopo che l’individuo, il fratello, si è impegnato a superare i conflitti; quando si abbandonano le categorie di chi è il più grande; quando non si è causa di scandalo; quando si è pronti a cercare l’altro, a non isolarlo. Sono situazioni che permetteranno al gruppo dei discepoli di poter pregare, di mettersi in sintonia con il Signore e sentire esaudita la propria richiesta.
Quando due o tre si riuniscono nel mio nome, richiama il concetto delle due o tre persone da chiamare nel caso che l’altro non voglia ascoltare la proposta di riconciliazione: sono le persone che si impegnano per costruire la pace, sono i costruttori di pace che possono rendere manifesta la presenza del Signore.
Questo è il valore della preghiera, una volta che ogni membro della comunità si è impegnato a salvaguardare la concordia all’interno del gruppo. Gesù dice: due o tre si riuniscono nel suo nome per dare adesione piena alla sua persona.
Nella cultura ebraica il nome rappresenta la persona, quindi se due o tre vivono dandomi piena adesione, io sono in mezzo a loro e questi possono chiedere. Gesù non parla di folle oceaniche, né di grandi parate che si radunano per la preghiera, ma parla di due o tre persone che sperimentano la presenza del Signore. La piccolezza è un richiamo alla singolarità della persona in modo che, ognuno, possa mantenere un rapporto stretto con il Signore.
Per gli ascoltatori di Gesù la legge aveva un valore molto importante: i rabbini dicevano che quando due o tre si radunavano per studiare la legge, lì c’era la gloria del Signore.
Gesù ha fatto una sostituzione fondamentale, non due o tre che si riuniscono per studiare la legge, ma due o tre che si riuniscono nel nome di Gesù, e possono sperimentare, tra loro, la gloria di Dio, la presenza del Signore.
Al centro della comunità non c’è la legge, ma Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi, il Dio fatto uomo. Alla fine del vangelo Gesù dirà: “Io sono con voi tutti i giorni”; una realtà già presente, non una promessa, ma qualcosa che è possibile sperimentare dal momento in cui c’è sintonia, concordia, unanimità nel praticare lo stesso amore. Il Signore si fa presente e sta tra noi e con noi.