Ivo da quale ceppo tribale sei uscito? Parlami un po’ di te e delle tue origini.

Mi chiamo Ivo Lazzaroni e sono di Cusio, su in alto della val Brembana (BG). Il papà Claudio era muratore e la mamma Giuditta prima di sposarsi era infermiera. Dopo essersi sposata, con il marito immigrato in Francia per lavoro e con tre figli da accudire ha abbandonato il lavoro per tirarci su come si deve. Ora, la mamma ha ottanta tre anni e il papà ottantacinque. Ho due sorelle più giovani di me, la prima Antonella è sposata e ha un figlio e una figlia. La nipote ha seguito le mie orme e dopo l’opportuna formazione lavora in una pasticceria in riviera. La sorella più giovane, Clara, cche è nata circa undici anni dopo di me, è medico e lavora all’Ospedale Generale di Bergamo al Pronto Soccorso. Vive ancora con i Genitori, e a sua presenza è preziosa per permettermi di essere qui in Africa.

Che percorso hai fatto da giovane?

Dopo le medie ho frequentato la scuola alberghiera a San Pellegrino in val Brembana. Feci il servizio militare in Friuli: Car a Udine e poi come autiere ad Aviano, vicino a Pordenone. Una volta terminato il servizio militare ho iniziato a lavorare come cuoco, girando alberghi in Liguria, Toscana, e in Romagna per conoscere altre culture culinarie e acquisire un buon bagaglio professionale. Il mio lavoro mi è sempre piaciuto e penso che oltre ai vari padroni anche i tanti clienti siano stati soddisfatti dei gustosi e vari piatti dei menù alla Lazzaroni. Ero giovane e amavo la libertà ma questo sistema di lavoro mi teneva sacrificato e troppo occupato, non avevo spazi di riposo. Dopo l’ultima stagione estiva a Bellaria, ho deciso di cambiare aria, scegliendo la buona aria di casa mia. Sono stato assunto da un ristorante dei dintorni. Ero ancora un po’ troppo sacrificato perché non esistevano né sabati né domeniche liberi. Provai a cambiare facendomi assumere da una casa di riposo a trentacinque chilometri da casa mia. Facevo il pendolare, ma ero molto più libero. All’inizio diversi ristorati mi chiamavano, così facevo anche degli extra per qualche soldo in più, il che non guastava.

Com’è nata questa chiamata a essere laico impegnato, al cento per cento e ancora per cento (cioè “a vita”) che ti ha portato all’avventura africana con i missionari della Consolata?

E’ una storia un po’ strana. Ero un ragazzo come tanti con i suoi difetti e le sue doti, piuttosto libero da quelli che consideravo condizionamenti della religione. Andavo a Messa come obbligo, preferendo restare in fondo alla chiesa. Pur essendo alla ricerca di uno scopo per la vita, vivevo un certo senso di vuoto. Avevo tutto: avevo un buon lavoro, stavo bene, possedevo la macchina, avevo una buona famiglia, però mi mancava qualcosa. Come è facile immaginare, mi domandavo pure: “Mi sposo?? Non mi sposo? Che cosa faccio?”

Come ti è arrivata la mazzata del cambiamento?

Trascorso qualche anno, un giorno dove lavoravo, trovai esposto in Bacheca: “Pellegrinaggio a Medjugorje”. Un nome e un luogo che non conoscevo e che non mi diceva niente. Ero inquieto è avevo una gran voglia di andare, di uscire, di evadere, non importa dove e non importa come. Andai dal Giovane che organizzava il pellegrinaggio e gli domandai: “Dov’è, sto Medjugorje e cosa si fa”. Strabuzzo gli occhi e disse: “In un pellegrinaggio cosa si fa? Non ti pare che si preghi?” Non che pregare mi attirasse molto, ma decisi di andarci. Arrivammo in Croazia la sera. Sceso dalla corriera, stavo già pensando di andare alla stazione per prendere un mezzo per tornare a casa: Tre rosari sulla corriera erano troppi. Per un pellegrinaggio bastava e ne avanzava. Non so come ma ci rimasi. Incontrai anche Viska una dei veggenti sempre serena e sorridente. In quei giorni successe qualcosa che mi scombussolò: era come se una saracinesca fosse calata dentro di me e non capivo cosa stesse succedendo. Mi sentivo immerso nella tristezza, mentre vedevo attorno a me volti luminosi, pieni di gioia. Una sera mentre c’era l’adorazione della Croce, nel silenzio totale, vicino a me una vecchietta pregava a voce alta dicendo: “Dio mio, Dio Salvami!” con una voce da oltretomba. Il mio sangue è diventato acqua dallo shock, e mi dicevo: “Che cosa succede qua?” Non so né come né perché ma ho sentito forte e violento il desiderio di pregare, pregare e pregare e la saracinesca che si era abbassata, dal fondo veniva su aprendosi e mettendomi dentro una pace e una gioia incredibili. Ho capito che ero io che dovevo cambiare. Tornando a casa la preghiera è diventata un’esigenza quotidiana. E’ nato anche un forte bisogno di fare del volontariato per aiutare le persone. Finii nella Caritas di Bergamo e come primo impegno, durante le ferie annuali dal lavoro. mi ritrovai in Albania, durante la guerra in Kossovo per dare soccorso ai rifugiati. L’anno successivo partimmo di nuovo per il Kossovo, poi fu la volta di Lourdes come barelliere dell’Unitalsi, e queste esperienze sono state come dei cartelli indicatori, che mi dicevano: “Questa è la tua strada. Devi donarti agli altri”. La sera mi sentivo stanco ma realizzato con una soddisfazione e una gioia incredibili.

Ivo, dopo aver messo queste nuove basi, immagino che non poteva mancarti il desiderio della Missione verso i più lontani, gli ultimi, anche geograficamente parlando.

Infatti, sognavo e immaginavo un impegno in Bolivia o in Equador… orientando l’interesse all’America Latina. Mi si presentarono due possibilità d’impegno sempre legate alla Caritas: la prima in Brasile con i Padri Somaschi (andata a monte per difficoltà loro), la seconda con la Consolata in Equador, ma anche questa fu annullata. Alla Caritas mi dessero: “Se vuoi, puoi fare un esperienza utile in Tanzania con le suore della Consolata”. L’Africa non m’ispirava ma accettai. Fu una breve esperienza di un mesetto tondo tondo, ma alla fine mi dicevo: ” Devo lasciare tutto! Devo Venire in Africa!”. Come sempre e se trova una porta leggermente aperta, il Signore ci infila il piede per impedire che si chiuda e porta avanti i suoi disegni. Tornando a Bergamo, dove ero sempre impegnato come cuoco, ho chiesto un periodo di aspettativa per un’esperienza personale. Tornai in Tanzania sempre con le Suore della Consolata, e fu un’esperienza incredibile. Ancora una volta sentii che era il momento di lasciare tutto per sempre e mettermi al servizio senza limiti di tempo. Le parole del Signore: “Vai vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri poi vieni e Seguimi”, ormai erano fuoco dentro di me. A dirla da cuoco, “Ero cotto a puntino”, ma il cuoco stavolta era il Signore.

Begli scherzi che ti tira il Signore, Hai un lavoro che ti piace e che è ben retribuito, e te né da cento senza paga. Sogni l’America Latina e ti manda in Africa. Pensi a una famiglia e te né da un’infinità, e via via? Come continua l’avventura?

Alla fine del periodo le Suore della Tanzania mi hanno indicato Bevera per prendere contatto con i Missionari della Consolata. Non mi son fatto pregare. A Bevera c’era già un gruppo di laici che si stavano preparando alla missione, una copia per la Colombia un’altra per l’Equador,. Io sognavo di partire in Tanzania, essendo già abituato e contento, Ma Colui che guida le nostre vite , mi destina in RDC…Ho capito che è sempre meglio fare la Sua Volontà. Mi proposero un servizio a Isiro, nel nord est del Paese, affiancando Fratel Domenico Bugatti per il Cagen che cura i bambini malnutriti della città. Incontrai P. Rinaldo Do e P. Antonello Rossi che venivano da Isiro e dintorni, m’incoraggiarono. Sono venuto e ci sono ancora.

Tuo papà la tua mamma e le tue sorelle immagino si siano presto accorti del tuo grande cambiamento, cosa dissero?

I cambiamenti si sentono nell’aria e non potevano non accorgersi. Quando dissi alla mamma che lasciavo tutto e partivo per tre anni come volontario laico in Congo, mi disse “ Guarda, lo sapevo già!”. Il fiuto di una mamma non mente. Mio Papà rimase un po’ meravigliato, mi chiese se tutto andava bene, alla mia risposta affermativa disse: “Se questa è la tua vita e sei contento, anche noi siamo contenti”. Anche le mie sorelle appoggiavano la mia scelta. Gli amici invece cercavano di scoraggiarmi: “Hai un buon lavoro, possiedi la casa, hai una bella famiglia, hai noi amici, possiedi la macchina, non ti manca niente e vuoi lasciare tutto e andare in Africa? Ma chi te lo fa fare?” per loro non era facile capire. Il tempo ha lavorato in mio favore e oggi apprezzano questa mia scelta.

Per esperienza so che i primi tempi in missione ti mettono a confronto con delle difficoltà, quali ti sono state particolarmente difficili?

Sono arrivato qua senza conoscere né il francese, e men che meno il Lingala, che tra le tante è la lingua congolese più parlata. Con le difficoltà per la lingua, per l’adattamento a una nuova mentalità, per i nuovi rapporti e via dicendo, ci vuole tempo e pazienza, e poi tutto si appiana. Era il 2007 e mi ha sconvolto trovarmi a che fare con i bambini malnutriti del Cagen. Avevamo più di cento bambini da seguire e nutrire ogni giorno. Venivo dalla cultura del cibo ben preparato dei menù raffinati, e mi domandavo: “Com’è possibile trovare ancora numerosi bambini in questo stato di malnutrizione, e handicappati abbandonati a se stessi. E ancora: “Che cosa fa per loro la società? Lo Stato?”. Passarono i tre anni famosi della convenzione come laico, La rinnovai per altri tre anni, ma poi…tirando le somme mi dissi: “A me non basta più. Do la mia vita tra i missionari della Consolata come aggregato laico”. Il Padre Generale accetto subito la mia proposta e ora sono “Aggregato Laico” a tutti gli effetti con i diritti e doveri dei missionari eccetto il diritto di voto attivo e passivo che spetta ai soli religiosi. Affianco a Fratel Domenico e ai suoi collaboratori ho lavorato nel Cagen per sei anni, lanciando anche qualche iniziativa come quello dei forni per fare del pane ben fatto. Insegnare un nuovo lavoro alle persone le aiuta a guadagnarsi onestamente da vivere e “sbarcare il lunario” soprattutto quaggiù dove è difficile farlo. Abbiamo fatto un progetto per realizzare un forno nella sede della Consolata e formare ragazze e ragazzi come “panettieri o panificatori” come si dice oggi. Abbiamo aiutato ognuno a fare a casa loro dei piccoli forni per continuare a produrre in proprio. Il forno principale è ora diretto da Debora una giovane mamma sordomuta che ormai “ha le mani in pasta” e produce del buon pane e anche dolci. Il mio servizio a Isiro è durato dodici anni.

La missione presenta sempre nuove esigenze che obbligano i superiori ad affidare nuove incombenze. Quale nuova carica ti è caduta addosso?

Mi fu chiesto di prender in mano l’economia, ho obbiettato che avevo fatto la scuola alberghiera e che non sapevo niente di economia. Diamo pure la colpa al Signore. Eravamo prossimi al Natale e mi ritornava in mente il “Fiat” di Maria. Mi dissi: “Ci provo” e mi buttai. In missione basta dare al Signore un po’ di disponibilità e ci pensa Lui a farti i miracoli. Era solo l’inizio. Nel 2019 il Padre David Moké, Amministratore del nostro ospedale di Neisu è stato eletto P: Regionale dei Missionari della Consolata. Mi fu proposto di sostituirlo. Un impegno grosso che mi lasciava molti dubbi. Gestire un bell’ospedale avviato e rinomato come quello di Neisu, con dodici dispensari in altrettanti villaggi era un’ impresa seria. Non mi sentivo all’altezza, ma per la legge della disponibilità, mi sono lasciato convincere. Con me c’è P. Giuseppe Fiore che mi aiuta nell’amministrazione.

Posso solo immaginare quanto sia problematica l’amministrazione di un grosso ospedale. Quali sono le sfide a cui devi continuamente rispondere?

Una grossa sfida è la povertà della gente. Da un lato devo essere attento e preciso sui conti economici dell’ospedale; dall’altro devo essere attento e umano vero la povertà delle persone aiutandole. Se c’è un’urgenza, una trasfusione, un taglio cesareo e non ci sono i soldi, non ho dubbi: Vengono soccorsi senza esigere nulla al di la delle loro forze. Bisogna credere nella Providenza, senza fare calcoli, e lei ci ha sempre aiutato. In comunità a Neisu siamo in cinque: quattro padri ed io. I padri sono impegnati nella parrocchia e nel servizio ai villaggi.

Ivo immagino che, considerato il tuo impegno e la tua esperienza missionaria, ti sia stato proposto da più parti di essere religioso Fratello Missionario della Consolata…

Ho solo una risposta molto semplice: “Non ho la vocazione”. Sono convinto che il Signore mi chiami a testimoniare il Suo Amore come laico, e così dire ai giovani che si può essere a servizio dei fratelli e della Chiesa senza essere religiosi. Sono un missionario nato e battezzato come laico aggregato, e non come religioso. Nella mia vocazione particolare sono contento, soddisfatto e realizzato. Mi sono trovato a casa in ogni comunità, dove i confratelli mi hanno accolto e insegnato molto. Non mi manca nulla. La gioia che sento dentro la sera quando sono stanco e dico: “Signore, anche oggi ho fatto tutto, forse non proprio tutto e uscito bene, ma ho amato la mia gente come tu mi chiedi”.

Se un giorno i superiori ti domanderanno di partire per altre terre, per esempio in America Latina com’era un tuo desiderio iniziale cosa risponderesti?

Anche se sono affezionato a questa gente e a questa terra, resto disponibile per rispondere ad altre esigenze. So che questo richiederà ripartire dal basso ed essere confrontato a nuove lingue, nuove situazioni, nuove culture. Ho i miei genitori anziani che immagino desiderino sia presente. Tra due anni avrò un periodo di vacanze in Italia e sarà l’occasione di riflettere con mia sorella medico sulla situazione dei miei genitori, che per ora sono abbastanza autosufficienti. Un giorno potrebbero aver bisogno anche di me.

Ivo, la tua è una gran bella, ricca e speciale vocazione, e con te ringrazio il Signore per questo dono. Penso che il tuo esempio sia gravemente contagioso. Peggio del Covid che ha mietuto tante vittime nella tua terra. Chissà se altri giovani sapranno ascoltare queste proposte di vita e dire come te il loro continuo “Fiat”. Il mondo ha bisogno di giovani generosi, distributori di pace e gioia.

Credo che la maggior “Gloria” di Dio sia l’uomo realizzato. Più ci si dona più ci si realizza. Finche lasciamo la nostra vita nelle mani degli altri non vivremo mai. Coviamo sentimenti magnifici e non li ascoltiamo, doni meravigliosi e non li cerchiamo, abbiamo paura di mettere in gioco la nostra vita. Siamo stati creati per occupare un posto nei piani di Dio e nel mondo, Un posto che nessun altro occupa. Non perdiamo l’opportunità di cercare questo posto e condividerlo con gli altri per un futuro migliore.

Conosciamo bene la situazione che il nostro pianeta sta vivendo e soffrendo: Pandemie mondiali, guerre, cambiamenti climatici che devastano la nostra terra, i diritti del uomo violati, il dramma dei rifugiati, la secolarizzazione di un mondo che vuole sostenersi su fondamenta prive di Dio e di principi morali. La speranza di una vita migliore sembra essere assorbita da un pessimismo globale. Nel suo celebre Inno alla Vita Santa madre Teresa di Calcutta, ci dona queste due frasi:

La vita è una opportunità…coglila.

La vita è Vita…difendila.

Auguro a tutti di vivere e proteggere la vita come Dono ricevuto impegnandoci ad aiutare gli altri perché trovino quel posto dato loro da Dio, tra e per i fratelli.