Padre Vincenzo Percassi
Nella seconda lettura San Paolo contrappone due modi opposti di vivere: uno secondo la carne ed uno secondo lo spirito. Possono esserci molti modi di spiegare queste due modalità di vita, ma fondamentalmente vivere secondo la carne significa cercare in sé stessi, nelle proprie possibilità e capacità, l’unica sorgente della vita, ignorando o trascurando il fatto che la vita originariamente viene da un Dio che è Padre. Se colui che vive secondo la carne dovesse scegliere tra vivere da padre o vivere da figlio in questo mondo, sceglierebbe sicuramente il primo ruolo. Essere padri di sé stessi significa poter vivere senza dipendere da nessuno. Significa divenire il maestro di sé stessi, senza dover imparare da altri, senza nessuno sopra di sé e senza debito verso alcuno. Contrapponendo i sapienti e gli intelligenti ai piccoli, ai bimbi che dipendono in tutto dai loro genitori, Gesù evidenzia l’ambiguità di questo atteggiamento di auto-sufficienza. Essa si manifesta all’interno della persona come contrapposizione tra carne e spirito ma finisce per riflettersi anche all’interno della società come contrapposizione tra forti e deboli. Più ci si allontana da un Padre che fa vivere e che è all’origine della vita, più diventa difficile custodire il senso della fratellanza. Più si presume di avere in sé stessi la sorgente della vita e della conoscenza più si diventa auto-referenziali e quindi distratti o intolleranti nei confronti di quella comunione che esige, invece, l’attenzione al più piccolo e al più debole, la condivisione dei beni, l’aggiustamento continuo al bisogno degli altri. Quando il profeta Zaccaria annuncia la venuta del messia come colui che con la sua mitezza distrugge la guerra e proclama la pace, sta annunciando un capovolgimento di prospettive in cui il debole prevale sul forte. La mitezza del messia ed il suo venire umilmente su un asinello preludono alla riconciliazione dei popoli ed alla guarigione delle relazioni in generale, operata però non con l’uso della forza ma con l’avvento di un messia che introduce nel mondo una salvezza inattesa e sorprendente. Nel Vangelo, Gesù proclama con forza il compimento di questa profezia quando ringrazia il Padre per aver consentito di manifestare nuovamente la sua paternità a questa umanità ferita che invece tende ad ignorarlo se non a rifiutarlo. Ma questo compimento non è automatico e spontaneo. Letteralmente Gesù dice: io rendo testimonianza, proclamo, confesso davanti al mondo la tua paternità o Padre. Si rende testimonianza e si proclama qualcosa che non è evidente per sé stessa. Resta sempre possibile alla libertà dell’uomo dubitare della paternità di Dio e quindi preferire di cercare la vita in sé stesso, obbligando, in un certo senso, il Padre a nascondersi. Il che non significa “assentarsi”. Per accogliere la rivelazione del Padre occorre una conversione del cuore per la quale smettiamo di sentirci proprietari della vita e quindi smettiamo di andare verso di essa come “creditori”, persone piene di esigenze, aspettative, pretese. Nella misura, invece, in cui scopriamo la figliolanza andremo agli altri come debitori, come persone che avendo ricevuto la vita come un dono incommensurabile, sentono di doverla donare il più possibile. Si, noi siamo debitori, ricorda San Paolo. Ma non verso la carne. Perché chi è debitore verso la carne sarà alla fine dominato e facilmente manipolato dai suoi stessi desideri. Noi siamo debitori verso lo spirito, verso questa vita nuova che non dipende da noi ma sgorga incessantemente dal Padre che ci ama. La consapevolezza di essere debitori non deve spaventarci. Siamo debitori non perché dobbiamo restituire qualcosa ma perché riceviamo costantemente di più di quello che potremmo restituire. Come un bimbo appena nato nutrito regolarmente dalla sua mamma semplicemente perché gli appartiene. In tal senso, dice San paolo, noi apparteniamo a Cristo perché viviamo del suo stesso spirito. Appartenere a Cristo non significa limitare la nostra libertà. Al contrario significa affidare a Lui la nostra pochezza ed insufficienza, la nostra incapacità di assolvere il nostro debito verso la carne che si manifesta come fatica e sforzo. Venite a me voi che siete affaticati ed appesantiti. Se guardi attentamente tutto ciò che ti affatica e ti opprime alla fine riconoscerai che è un debito verso la carne, verso il tuo sforzo di affermare te stesso. Venite a me ed imparate da me. Imparare non è così semplice come andare a scuola. Se qualcuno ti dicesse: impara da me, la cosa ti infastidirebbe. Perché ognuno crede di essere capace di vivere e di dare un compimento a questa sua vita. I discepoli imparavano da Gesù come da una persona umana, da un’esperienza, da fatti e situazioni e per far questo dovevano farsi umili. Imparare da Cristo, dunque, per noi significa essere ricettivi a tutta la realtà che ci circonda riconoscendo in essa la presenza nascosta del Signore risorto. Impari da Cristo quando accetti di imparare dalla comunità, dai tuoi genitori, dalle contraddizioni della vita, dai tuoi errori. Se sei abbastanza umile da imparare dalla vita, da lasciarti cambiare dalla vita ti accorgi che ciò che ti sembrava pesante diventa leggero e ciò che ti sembrava faticoso diventa facile. E ti scopri debitore di un amore che ti supera sempre.
“Dio abita dove lo si lascia entrare”, detto rabbinico.