Padre Luigi Consonni
Prima lettura (Zc 9,9-10)
Così dice il Signore:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra».
Il profeta annuncia la venuta del Messia: “Ecco viene il tuo re”. Il re, per Israele, è il riferimento centrale della vita individuale e sociale della nazione; egli è il salvatore, e la sua missione consiste nel difendere le persone esposte al sopruso, particolarmente il povero, la vedova e lo straniero; è il garante dell’Alleanza che, nel compimento della giustizia e del diritto, stabilisce l’armonia fra tutti e con tutto, ovvero la pace.
Il profeta traccia il profilo del re: “Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino”. La giustizia è la fedeltà all’Alleanza i cui canoni riguardano l’avvento del regno di Dio che, essendo dono, necessariamente richiede la collaborazione responsabile del re e del popolo.
La vittoria è il risultato del conflitto, della lotta contro avvenimenti, circostanze e forze avverse particolarmente violente, nel quale il re “farà sparire il carro della guerra da Éfraim – il popolo – e il cavallo da Gerusalemme”; “… l’arco di guerra sarà spezzato” dall’impegno tenace e costante del re e del popolo, condizione previa e indispensabile per instaurare il nuovo ordine sociale nel quale accogliere l’avvento del Regno, per la volontà del Padre e della dinamica dello Spirito, azione dell’amore trinitario.
Sarà un re umile, l’opposto di chi esercita il potere, sotto il profilo organizzativo e ideologico, imponendo dall’alto il timore e l’ossequio della sua indiscutibile volontà e del suo progetto. La sua immagine è quella di chi “cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”, il contrario del maestoso ed esuberante trionfo nel cavalcare il miglior destriero per stupire e impressionare con il potere dalla forza ineguagliabile.
L’umiltà è porsi sul livello e nelle condizioni di ciò che è basso – terra – socialmente irrilevante, condizione imprescindibile per stabilire autentici rapporti umani. A tal fine l’autorità conferita è accompagnata dall’autorevolezza, propria della capacità di elaborare risposte adeguate di buon governo, conforme ai canoni dell’Alleanza.
Il timore e il rispetto dovuto al re sono guadagnati sul campo e, precisamente, nello svolgere la missione conferitagli. Non è frutto di precondizioni sociali e organizzative, motivate e sostenute dalla convenienza, dalla paura o da interessi individuali o di lobby.
L’autorevolezza del re è riconosciuta, e bene accolta, per i frutti del suo governo, che fa “sparire il carro da guerra (…) l’arco da guerra sarà spezzato”. Si tratta della vittoria del giusto sull’ingiustizia e sul male nelle sue diverse espressioni, sulla guerra e sulla violenza. Positivamente, egli instaura “la pace alle nazioni (…)” e, propriamente, sintonizza con la finalità dell’Alleanza, ovvero il sogno di Dio per l’umanità intera.
“(…) il suo dominio sarà di mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”. Il compimento della promessa non rimarrà nel solo ambito di Israele, ma abbraccerà il mondo intero e avrà carattere di stabilità. L’azione del re sarà universale e motivo di grande delizia.
La gioia del popolo sarà la stessa del Signore. Pertanto, “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!” per l’avvento della Sua sovranità, per l’avvento del Regno di Dio. Gerusalemme, nella concezione del popolo eletto, è ritenuta come l’ombelico del mondo, imprescindibile riferimento del nuovo ordine sociale e dei rigenerati rapporti interpersonali, per la pratica del diritto, della giustizia e di tutto ciò che è necessario per coltivare e mantenere la pace.
E, di fatto, il re è riconosciuto come mediatore della salvezza, unto dal Signore per tale fine, ossia guidare il popolo nel giusto cammino e, con l’avvento del Regno di Dio, nel rispondere adeguatamente alle mutevoli circostanze ed eventi del processo storico con audacia, coraggio e creatività.
L’esercizio del potere esige apertura della mente e fiducia nelle proprie capacità, in attenzione alla promessa insita nell’Alleanza e, soprattutto, alla magnanimità, all’ intelligenza, alla volontà di condurre l’attività politica e sociale verso risultati soddisfacenti richiesti dal contesto, dalle circostanze e dai termini dell’Alleanza. Allora sarà manifesto il successo del suo comportamento.
Nell’orizzonte della realtà umana è lo Spirito Santo che rende possibile il corretto esercizio del potere. La seconda lettura offre delle considerazioni importanti al riguardo.
Seconda lettura (Rm 8,9.11-13)
Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.
Paolo si rivolge alla comunità e afferma due volte: “lo Spirito di Dio abita in voi”. Egli insiste sulla presenza dello Spirito, asse attorno al quale ruota la sua riflessione. L’accoglienza della presenza dello Spirito nell’intimo del credente è condizione indispensabile per acquisire la certezza di appartenere a Cristo.
Pertanto “non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito”. Spirito e carne sono due opposti reciprocamente escludenti: dove c’è uno non c’è l’altro. Tuttavia, la nuova realtà operata dalla fede nell’attività dello Spirito, non è acquisita in forma stabile e permanente, come un possesso o come un agire automaticamente e meccanicamente. Questo perché il rapporto carne/Spirito è conflittuale, e costantemente attivo per la seduzione delle proposte della carne.
La presenza dello Spirito con la sua attività, accolta con la fede escatologica di Gesù, da parte del credente nel contesto e nella circostanza specifica, elabora nell’intimo il discernimento sul come procedere e cosa fare opportunamente, in attenzione all’avvento del Regno di Dio. Tuttavia, per la costante seduzione della carne, c’è sempre il rischio di passare da un polo all’altro, come avviene con l’oscillazione del pendolo. Emerge quindi il costante conflitto tra i due opposti.
Paolo, nella lettera, dà testimonianza di tale conflitto in lui, nell’affermare che vede e desidera il bene ma finisce per fare il contrario. L’esperienza è così angustiante che, alla fine della riflessione, esclama: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”. E risponde: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”, il liberatore e, con lo Spirito, l’agente della vittoria.
Specificamente, l’agente liberatore è la grazia, il dono dello Spirito che attualizza gli effetti della morte e risurrezione di Cristo. Egli è sempre attivo, a disposizione, per vincere la forza della carne. Paolo conclude il capitolo sette della sua lettera affermando la permanente legge del conflitto in lui e in ogni persona: “Io, dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato” (Rm 7,24-25).
Ne consegue che “noi siamo debitori non verso la carne”, il che giustifica l’obbligo di rispondere e soddisfare desideri e progetti in sintonia con la volontà del Padre per l’avvento della nuova società, del Regno di Dio. E Paolo ne spiega il motivo: “perché, se vivete secondo la carne, morirete”.
Egli non si riferisce semplicemente alla morte corporale, ma alla “seconda morte” nella persona fisicamente sana. Si tratta della disumanità, della perdita di sensibilità e umanità; è la morte che conduce al vuoto, al non senso, alla depressione, al vagare senza una meta; è la morte sociale causata dalla discriminazione; è la morte dovuta allo sfruttamento delle persone e della natura, al disprezzo razziale e culturale; è la morte morale per la cattiveria, la malvagità, l’arroganza e la prepotenza; è la morte spirituale per l’incapacità o il rifiuto di rapportarsi con lo Spirito. In altre parole, è la morte della persona centrata e chiusa in sé stessa, nel proprio io. Tutte queste “morti” hanno conseguenze devastanti nella vita giornaliera.
Al contrario, “Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”. Ne è prova la morte e risurrezione di Gesù Cristo, i cui effetti nel credente trasformano e rinnovano la coscienza per il perdono dei peccati, che stabilisce la nuova alleanza, la vita eterna, la capacità di amare come risposta all’amore con cui è amata dalla Trinità.
L’agente del processo è “lo Spirito di Dio, (…) che ha risuscitato Cristo dai morti e darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. È morire alle opere della carne da un lato e risorgere con Cristo dai morti dall’altro per lo stile vita, per la filosofia dell’amore attiva nella vita e l’azione pastorale di Gesù guidato dallo Spirito. Ora lo Spirito del Risorto abita nei credenti e li rende nuove creature, capaci di insegnare e trasmettere l’azione pastorale del maestro.
Ecco allora il senso della formula condizionale: “E se lo Spirito di Dio (…) abita in voi”. Lo Spirito di Dio è la dinamica che sostiene e capacita la volontà nel dare spazio allo stile di vita, alla filosofia dell’amore e alla pratica conseguente.
L’apostolo ha sperimentato in sé stesso il dono e i suoi effetti, anticipazione della pienezza di vita futura, della vita eterna instaurata dal Risorto. Pertanto il credente ha tutte le condizioni per vincere la battaglia contro la “carne”.
A al fine è necessario assumere l’infanzia spirituale di cui parla il vangelo.
Vangelo (Mt 11,25-30)
In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Dopo un severo giudizio riguardo agli oppositori, Gesù intona un inno di lode: “Ti rendo lode, Padre, (…) perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. I “piccoli” non sono i bambini (solo attorno ai dodici anni sono considerati adulti dopo la prova di comprendere la Legge) ma gli umili – coloro che “sanno di non sapere” – anche gli intelligenti o i dotti; e, infatti, non è difficile imbattersi in persone di spicco che, per la loro scienza, ammettono di sapere poco rispetto al necessario per considerarsi sapienti o saggi.
Farsi piccoli è porsi di fronte a sé con sincerità, accettare il limite del proprio sapere e agire e sostenere il desiderio di conoscere e fare meglio e di più, consci che la fonte del sapere sfugge al proprio dominio. Per questo motivo il saggio, in primo luogo, ascolta, dialoga e coinvolge gli uditori, lasciando trasparire i limiti della propria condizione.
La fonte del sapere è in Dio, o meglio, è Dio stesso. A ciò allude Gesù: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio”. Tutto è dono; accoglierlo con umiltà e riconoscenza crea il singolare rapporto che Gesù esplicita: “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio (…)”. La conoscenza non è solo intellettuale ma esperienziale, atraverso la profondità, autenticità e sincerità dell’azione e del modo di procedere con successo, “(…) e a colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”, nel trasmettere il corretto atteggiamento, le adeguate intuizioni e attività: “Sì o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”.
Nell’ambito dell’umano la ricerca della verità, dell’azione intelligente e opportuna, fa emergere nella persona oppressa o impotente la grandezza e lo stupore del mistero. In un primo momento l’impenetrabilità e l’incomprensione di esso genera uno stato d’animo di sconcerto, d’isolamento, per la mancanza di aiuto nella tentazione di desistere.
In tale circostanza lo scoraggiamento, la delusione con sé stessi, è accompagnata da un senso di sconfitta che induce all’abbandono. E cade a proposito l’esortazione di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”, per accogliere il sapere e acquisire nuova conoscenza che l’umiltà, la speranza e la fede escatologica in Lui trasmette mediante l’amore in cui si viene coinvolti.
Fra l’altro Gesù presenta la mitezza e l’umiltà, due virtù che gli sono proprie, e per le quali “Tutto è stato dato a me dal Padre mio”; infatti aggiunge: “imparate da me, che sono mite e umile di cuore”. Imparare da Lui è prendere “il mio giogo sopra di voi”, ossia la causa dell’avvento del Regno, che include il metodo, la strategia, la finalità dell’azione di Gesù stesso, similmente al contadino che guida i buoi soggetti al giogo.
Gesù afferma: “il mio giogo, infatti, è dolce e il mio peso leggero”; ma è molto comune ascoltare persone che affermano come sia pesante il “giogo”, e quanta fatica costi il seguire l’insegnamento e la pratica del Signore. La causa è nel corto circuito derivante dalla mancata umiltà, dall’ostinazione nel rimanere attaccati alle proprie categorie mentali e dal non lasciarsi pervadere dall’amore, dalla filosofia che Gesù ha insegnato e praticato, tramettendo vita in abbondanza (Gv 10,10).
Tutto ciò è particolarmente importante per il discepolo, chiamato a evangelizzare per stabilire la pace, l’armonia, il diritto e la giustizia; e far sì che, con l’Alleanza e l’accoglienza dell’avvento del Regno, tutto il creato risplenda di nuova luce.