Padre Luigi Consonni

Prima lettura (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

Il libro degli Atti degli Apostoli – continuazione del Vangelo di Luca: “Nel primo racconto” – testimonia l’azione dello Spirito Santo nella diffusione del vangelo in Israele e nel resto del mondo allora conosciuto e, con esso, la nascita e crescita delle comunità cristiane.
L’introduzione presenta Gesù nel periodo – quaranta giorni, simbolo di un periodo esteso – che va dalla risurrezione all’ascensione durante i quali parlava “delle cose riguardanti il regno di Dio”. Non parla di sé stesso, della grande ingiustizia e violenza di cui fu vittima, né del tradimento e abbandono degli apostoli, ma solo della finalità della missione: l’avvento del regno di Dio.
Gesù testimonia un distacco sorprendente dagli eventi tragici della crocifissione. È come se nulla di particolare lo avesse coinvolto. La sua tensione e le sue preoccupazioni riguardano la missione, il raggiungimento del fine per il quale è entrato nel mondo e nella storia. Non ritiene conclusa la sua missione, anche se al riguardo la Pasqua è l’evento determinante e decisivo.
Come ha potuto mantenere il distacco dalle sue dolorosissime vicende? Il brano non riferisce alcuna parola di critica o di lamento per l’ingratitudine del popolo o la debolezza degli apostoli; e non c’è rivalsa verso chi l’ha condannato, ma pone l’attenzione alla conversazione con i discepoli sull’avvento del Regno di Dio.
In quei momenti l’evento pasquale non è adeguatamente compreso dagli apostoli che domandano: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostruirai il regno d’Israele?”. Costoro aspettano la realizzazione del regno in sintonia con le attese del popolo e di Giovanni Battista, con l’espulsione degli invasori romani e la purificazione del popolo che non osserva la Legge mosaica, instaurando il regno di Israele. Non hanno capito la portata e l’importanza dell’evento, nonostante la presenza del Risorto.
Gesù non si sorprende, né riprende la spiegazione perché sa che non sono ancora in grado di capire, ma segnala quel che avverrà, affinché non perdano il senso e la finalità della missione. Comprenderanno ciò solo con l’invio dello Spirito Santo e, pertanto, afferma: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere”, e anticipa l’azione del Padre che avverrà sicuramente.
E al riguardo aggiunge: “riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”. Lo Spirito li farà coscienti della portata e del valore della Sua morte e risurrezione, per loro stessi e per l’umanità intera, nel coinvolgerli e continuare, in suo nome, la missione riguardo l’accoglienza dell’avvento del Regno di Dio.
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato e una nube lo sottrasse ai loro occhi”. La nube raffigura la presenza dello Spirito Santo. Con l’ultima apparizione la persona di Gesù Cristo entra definitivamente con il suo corpo nell’ambito trinitario, nell’ambito del divino, dopo aver universalizzato la missione e conferito la responsabilità agli apostoli.
Attraverso i due messaggeri – “due uomini in bianche vesti” – Dio esorta gli apostoli a non rimanere semplicemente stupefatti dell’evento e paralizzati a guardare il cielo. E assicura loro: “Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare al cielo”.
È un inganno identificare il cielo con un luogo geografico, extra-terreno, un luogo al di sopra le nostre teste: l’affermazione riflette, semplicemente, le conoscenze di quel tempo. Il cielo indica l’ambito del divino, della gloria di Dio. È come “l’anima” della creazione, dell’umanità, della persona, della realtà più autentica, vera e profonda, intrisa della presenza trinitaria per la fedeltà a Cristo e alla causa del Regno, che abbraccia e trasforma tutto e tutti nella potenza della gloria di Dio.
Gesù disse: “Se uno mi ama – facendo spazio all’azione dello Spirito – osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Con esso la realtà umana è immersa nella Trinità.
Così sarà pure per l’umanità e la creazione, alla fine dei tempi: “E quando tutto gli sarà sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 25,28).
E allora, per il credente e l’umanità intera, “verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare” nella gloria trinitaria. L’agente e la forza dinamica sulla terra è lo Spirito Santo, come si evince dalla seconda lettura.

Seconda lettura (Ef 1,17-23)

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.
Egli la manifestò in Cristo,
quando lo risuscitò dai morti
e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,
al di sopra di ogni Principato e Potenza,
al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato
non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi
e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
essa è il corpo di lui,
la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

Paolo intercede presso Dio a favore dei membri della comunità perché “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione”. Supplica l’invio e l’azione dello Spirito – il maestro interiore – in loro, “per una profonda conoscenza di lui”, conoscenza che non si riferisce tanto all’aspetto intellettuale quanto all’esperienza di presenza, di coinvolgimento nell’amore per la causa dell’avvento del regno di Dio.
Gesù Cristo, l’evento pasquale e la causa del Regno, costituiscono un insieme di inesauribile profondità. Quanto più ci avviciniamo ad esso, più l’orizzonte si allarga e più si è presi dal fascino del coinvolgente mistero trinitario. Il pericolo è accomodarsi e soffermarsi solo sulla conoscenza che, non sviluppata adeguatamente nella pratica di rapporti interpersonali e sociali, diventa una realtà debole e superficiale, insufficiente per testimoniare e condurre la missione per l’accoglienza dell’avvento del Regno di Dio.
Paolo ritiene necessario che tutti acquisiscano lo spirito di sapienza e di rivelazione per comprendere sempre più “a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore”. Fra parentesi, i santi citati sono tutti i credenti (non quelli che siamo abituati a pensare, i canonizzati dalla Chiesa per l’eccellenza delle loro virtù).
La speranza e l’eredità appuntano al futuro già presente, pur nei limiti e deficienze della condizione umana, che non permettono di percepirlo con chiarezza e in tutta la sua portata. Perciò Paolo supplica il Padre della gloria affinché “illumini gli occhi del vostro cuore” – sede dell’intelligenza, della riflessione e dell’approfondimento – per sintonizzare con il progetto di Dio riguardo l’avvento del Regno, e comprendere la grandezza dell’amore del Padre.
La forza, il vigore e l’efficacia del progetto di Dio si manifestò “in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli”. La risurrezione è l’avallo della persona e della missione di Gesù, dell’amore Dio per rigenerare la persona, la comunità e l’umanità nel sostenere e perseverare nell’amore della Trinità nel momento della consegna, il Venerdì Santo. Stare alla destra del Padre nei cieli testimonia la verità della missione e il raggiungimento della meta con l’evento ultimo e definitivo.
La speranza e l’eredità sono percepite, e credute, non dal ragionamento e dall’intelligenza umana, né da visioni, apparizioni o audizioni ritenute provenienti dal mondo divino, ma per la pratica e l’insegnamento di Gesù per l’azione dello Spirito. Ogni persona di buona volontà, solidale con l’umanità nell’instaurare il diritto e la giustizia, partecipa della speranza e dell’eredità per la qualità dei rapporti interpersonali e sociali.
La pratica del comandamento di amare gli uni gli altri come Lui ha amato evidenzia l’accoglienza e l’efficacia del dono della salvezza. Emerge che Dio, ricco di misericordia, fa rivivere ogni persona di buona volontà in Cristo: “Con lui (Cristo) ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,4-6).
Il Padre, nel risuscitare Gesù dai morti lo colloca alla sua destra nella gloria del cielo. È il destino del credente, affinché abbia chiarezza della propria identità e della pienezza di vita da coltivare per sintonizzare con la meta della quale già partecipa nel cammino personale e sociale sostenuto dalla fiducia nella Trinità. In questo quadro si apprezza l’opera di Gesù Cristo e l’azione, nel Gesù storico e nel credente, della Trinità. È nell’insieme del quadro che si apprezza la bellezza e il messaggio dell’opera.
Il singolare e inscindibile rapporto fra Cristo e la Chiesa – tra il capo e il corpo – proiettati nell’accoglienza dell’Avvento del Regno, nell’oggi l’ultimo e definitivo, fa emergere nel profondo dell’essere la “vita in abbondanza” (Gv 10,10). In tale quadro la Chiesa (con la C ben maiuscola) – la comunità che si riunisce per la lode a Dio – è il “corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”.
Il “perfetto compimento” include il coinvolgimento di tutti i popoli nella dinamica dell’amore: permette a ognuno di essere sé stesso – realtà singolare e irriducibile – e di vivere la comunione fraterna nella responsabilità e solidarietà; in una parola, nella pace.
È ciò che raccomanda Gesù Cristo nel vangelo di oggi.

Vangelo (Mt 28,16-20) – adattamento del commento di Alberto Maggi

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

L’episodio dell’ascensione di Gesù non è una separazione, ma una vicinanza, non una lontananza ma una presenza ancora più intensa, perché Gesù è nella pienezza della condizione divina. Il finale del vangelo di Matteo è costituito da cinque versetti nei quali l’evangelista racchiude, riassume tutto il suo vangelo.
Esaminiamolo più approfonditamente.
Gli undici discepoli”; i discepoli non sono più dodici, e il numero, in questo vangelo, non viene ricostituito. Il dodici significava il nuovo Israele, l’undici significa che il nuovo Israele non viene ricostituito. Pertanto il messaggio di Gesù è universale, è per tutta l’umanità. “andarono in Galilea”; vanno in Galilea perché, per ben tre volte, c’era stato l’invito di incontrare Gesù in Galilea: Gesù, risuscitato in questo vangelo, non si manifesterà mai a Gerusalemme.
Ma l’evangelista scrive che andarono “su-il monte”; usa l’articolo determinativo e, quindi, su un monte particolare, “che Gesù aveva loro indicato”. Ma Gesù in questo vangelo non ha indicato nessun monte. Perché i discepoli vanno su “il” monte?
Il significato non è topografico, ma teologico: il monte, in questo vangelo, è il monte delle beatitudini, dove Gesù ha proclamato il suo messaggio; beatitudini che sono otto – cifra della risurrezione nel cristianesimo primitivo – perché Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana. Quindi i discepoli, chiaramente, vanno su “il” monte, e l’evangelista vuol dire che l’esperienza di Gesù risorto non è un privilegio concesso duemila anni fa a poche persone ma una possibilità per tutti i credenti di tutti i tempi; basta situarsi su “il” monte delle beatitudini, cioè accogliere il suo messaggio, che è stato formulato e riassunto nelle beatitudini.
quando lo videro”; il verbo vedere, adoperato dall’evangelista, non indica la vista fisica ma la profonda esperienza interiore. “si prostrarono”: quindi riconoscono in Gesù una condizione divina;
Poi, stranamente, l’evangelista dice: “essi però dubitarono”, ma di cosa dubitano? Non che Gesù sia risuscitato, lo vedono! non che sia nella condizione divina, si prostrano!
Allora perché dubitano? L’evangelista ha adoperato questo verbo – dubitare – soltanto un’altra volta, nell’episodio conosciuto, quando Gesù cammina sulle acque – che indica la condizione divina – e Pietro, il discepolo, voleva anche lui camminare sulle acque, voleva anche per sé la condizione divina. Gesù gli dice che può andare, ma quando vede la difficoltà, Pietro incomincia ad affogare e chiede aiuto. Lui credeva che la condizione divina sarebbe stata concessa come un dono dall’alto, e non sapeva attraverso quali difficoltà avrebbe passato. Ebbene, Gesù rimproverò quella volta Pietro con queste parole: “uomo di poca fede (si riferisce alla fede di pochi, la fede dei farisei) perché hai dubitato?”. Allora, in questa lettura, questo dubbio che l’evangelista scrive, qual è? Hanno visto Gesù nella condizione divina, però ora sanno attraverso cosa è passato: la morte più infamante, più disprezzata per un ebreo, la maledizione della croce.
Allora di chi dubitano? Dubitano di sé stessi: sono invitati a raggiungere la condizione divina, ma non sanno se saranno capaci di affrontare la persecuzione e anche la morte. Ecco il motivo del dubitare.
Mentre le donne si sono avvicinate a Gesù, qui è Gesù che si deve avvicinare ai discepoli; infatti, Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (qui l’evangelista si richiama al profeta Daniele, dove al figlio dell’uomo è stato dato ogni potere in cielo e in terra). Ma Gesù non usa questo potere per essere servito, ma, come Lui stesso dirà, “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”; quindi è un potere per servire.
E poi, ecco che arriva l’ordine imperativo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”; il termine popoli indica le nazioni pagane, “battezzandole”. Il verbo battezzare significa immergere, inzuppare, “nel nome”, il nome indica la realtà profonda di un essere, “del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè immergeteli nella realtà profonda di Dio. Fate fare loro esperienza di chi è Dio, “insegnando (…)”, ed è l’unica volta che Gesù autorizza i suoi discepoli a insegnare, “(…) loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”. E questa è anche l’unica volta che appare il verbo comandare in questo vangelo, proprio in riferimento alle beatitudini.
Allora qual è il significato di questo comando di Gesù? Egli aveva invitato i suoi discepoli a seguirlo per essere pescatori di uomini; pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua che può dare loro la morte, quindi dalla situazione mortale, per dare loro la vita.
Ebbene, Gesù ora indica come e dove: come si diventa pescatori di uomini? Immergendoli nello Spirito del Signore, nella realtà più profonda dell’amore divino; e dove? Dove lo spazio è tutta l’umanità.
E poi l’assicurazione finale di Gesù: “ecco io sono con voi”; questo è il tema, il filo conduttore di tutto il vangelo. Al capitolo primo, versetto ventitré, l’evangelista aveva indicato Gesù come il “Dio con noi”; a circa metà del suo vangelo Gesù aveva detto che lui era con i suoi discepoli: “dove sono due o più io sono con loro”; e ora conclude con le parole che assicurano la sua presenza: “con voi tutti i giorni fino”. Ora la traduzione della CEI è tornata a scrivere “fine del mondo”: era migliore quella del ’97, quando la vecchia edizione traduceva in questo modo: “fino a quando questo tempo sarà compiuto”, con la fine del tempo cronologico, con la morte.
Non c’è la fine del mondo, “alla fine dei tempi”. Nell’ipotesi che ci fosse è ignoto quando e come avverrà, il che declassa come mito l’ultimo e definitivo della risurrezione di Gesù. Invece è in gioco “il fine del tempo cronologico”, nell’orizzonte dell’ultimo e definito, l’evento escatologico già presente e attivo nel credente e nella comunità per la pratica dell’amore insegnato e praticato dal Risorto.
È compiuto” (Gv19,30) con la morte “Il fine del tempo cronologico” di Gesù nell’ambito dell’evento escatologico, l’ultimo e definitivo, “per la potenza di una vita indistruttibile” (Eb 7,16) quale è la risurrezione. E Gesù affermò: “ecco io sono in mezzo a voi per sempre”.
E l’evangelista, che ha aperto il suo vangelo riferendosi al libro del Genesi – inizia il vangelo di Matteo scrivendo “libro della Genesi” e lo chiude con il riferimento all’ultimo libro della Bibbia ebraica, il secondo libro delle Cronache, dove c’è l’invito di Ciro, re di Persia, che dice al popolo degli ebrei: “il Signore Dio del cielo mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo il signore suo Dio sia con lui e salga”. È l’invito di Ciro agli ebrei di uscire dal suo regno per tornare in Israele e costruire un tempio al Signore.
Anche Gesù invita i suoi discepoli ad andare, lasciare l’istituzione religiosa, ma non a costruire un tempio, perché la comunità dei discepoli sarà il nuovo tempio dove si manifesta l’amore, la misericordia del Signore.