“Io sono la via, la verità, la vita”. Quando Gesù pronunciava queste parole nel cenacolo i discepoli vedevano bene che egli era vivo ma non potevano non interrogarsi in che senso Egli fosse la vita. Sarà l’evento pasquale a dare compimento a queste parole di Gesù. Colui che è risorto nel suo vero corpo non si è svincolato soltanto dalla propria morte ma ha sconfitto e indebolito la nostra stessa morte. Così egli ha introdotto nella precarietà della nostra vita un orizzonte nuovo, che diventa sempre più chiaro nella misura in cui la nostra fede diventa sempre più profonda: l’orizzonte della vita eterna. Tutto ciò che noi possiamo desiderare su questa terra per sentirci vivi è promesso e realizzato nel Cristo risorto che si fa nostra vita. Chi crede in Lui non sarà deluso, promette Pietro nel suo discorso agli abitanti di Gerusalemme. Ciò non elimina automaticamente la problematicità della vita. Quante volte il nostro cuore si ritrova impaurito, dubbioso, esitante, agitato proprio perché non percepiamo la vita come eterna ma piuttosto come costantemente minacciata dalla morte. Gesù sa bene che presto i suoi non lo vedranno più “nella carne” proprio come noi oggi non lo vediamo nel suo corpo glorioso. Per questo Egli dice: non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in me ed in Dio. È la fede che deve portarci oltre la paura e il dubbio. Per vincere la morte Gesù ha dovuto innanzitutto affrontarla. Ciò significa che nel chiederci di appoggiarci a Lui egli ci chiede di percorrere lo stesso suo cammino. Anche per noi allora non si tratta di evitare la morte ma di aver fiducia che affrontandola insieme a Lui essa si rivela non un termine ma un cammino verso una vita più piena. Non è facile abbandonarsi quotidianamente a questa fiducia. Affrontiamo la morte, infatti, non solo al momento del nostro ultimo respiro ma ogni volta che rischiamo di affrontare una situazione nella quale non sembra esserci alcun cammino. L’obiezione di Filippo: Signore non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere il cammino… è in fondo l’obiezione di ogni cuore che esita di fronte all’invito di Gesù di rimanere fedeli a Lui in situazioni che umanamente sembrano essere senza via di uscita. Eppure, è proprio questa la condizione per fare della nostra vita un sacrificio sacerdotale come lo è stata quella di Gesù. Siamo un popolo sacerdotale, come ci ricorda Pietro, perché non viviamo più nella ricerca e nell’affermazione di noi stessi ma nell’offerta della nostra vita unita a quella di Gesù. Il termine “sacrifico” per quanto possa suonare fuori moda è il solo che efficacemente si oppone alla prospettiva altrimenti dominante nel cuore umano: quella dell’interesse. La possibilità di assumere questo atteggiamento come “stile di vita” può giustamente apparire “sovrumana”, eroica, eccezionale. Essa, tuttavia, non va intesa come un dovere da realizzare ma come una promessa che il Padre vorrebbe realizzare in noi. Quando Gesù parla dei discepoli che faranno cose anche più grandi di quelle che ha fatto lui parla appunto nella logica dell’amore non dell’eroismo. Noi facciamo fatica a credere che la natura umana possa superare se stessa; che possa realizzare qualcosa di più e di meglio di sé stessa. Facciamo fatica a credere che ciascuno di noi è molto di più di quello che appare. Anche i discepoli in fondo esitavano a credere che in Gesù, nonostante l’eccezionalità delle sue opere, ci fosse qualcosa di più della sua semplice natura umana. Da tanto tempo sono con voi, dovrà rispondere Gesù a Tommaso, e ancora non mi conosci e non credi che il Padre è in me come io sono nel Padre. La fede nella resurrezione implica la consapevolezza che la vita umana ormai opera in sinergia con la vita di Cristo che riempie di se la realtà intera e quindi divinizza gradualmente tutto ciò che della nostra vita può essere offerto al Padre. Tutto io che noi facciamo può apparire banale in se stesso. Se compiuto in comunione con Cristo e quindi in vista di amare il dettaglio quotidiano acquista lo spessore delle cose divine e diventa un’opera eccezionale perché fruttuosa e non sterile, generativa e non destinata semplicemente a soddisfare se stessi. In fondo il servizio alle tavole di cui si parla negli atti suscita rivalità e mormorazioni non tanto perché non ci fossero abbastanza mezzi ma perché non vi era abbastanza amore nel compierlo. Il rischio è tanto più vero nella nostra società tecnologizzata dove ci si può facilmente illudere che tutto può essere pianificato e che ogni problema alla fine troverà la sua soluzione “tecnica”. Non ci si accorge che una mentalità tecnologica diventa facilmente una mentalità economica che scarta, esclude, fa preferenze basate sull’interesse. L’ammonimento degli apostoli vale allora anche per noi. Non è bene trascurare l’annuncio della Parola e quindi della resurrezione di Cristo per limitarsi a cercare solo delle soluzioni tecniche ai problemi. L’uomo per vivere in pienezza deve poter amare e per poter amare deve risorgere con Cristo per passare da una natura morente ad una natura filiale; una natura che riceve la vita dalla sua sorgente ultima che è il Padre.