Padre Tonino Falaguasta Nyabenda
Nella quinta domenica del Tempo Pasquale assistiamo alla nascita della Chiesa come organizzazione. Andiamo a consultare la Parola di Dio che troviamo nella Sacra Scrittura. Essa definisce la Chiesa (da Ekklesìa = assemblea convocata con un atto religioso) come un mistero. E’ il mistero di un popolo ancora peccatore (così ci spiega il biblista francese Jacques Guillet), ma che possiede già il pegno della salvezza, grazie al Cristo che ne è il Capo. La Chiesa è il mistero di una istituzione umano-divina, in cui l’umanità può trovare la luce, il perdono dei peccati e la grazia. E la grazia è il dono di Dio che contiene tutti gli altri doni. Giustamente san Paolo esclamava: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a Lui?” (Romani 8, 31-32).
La prima lettura di oggi (Atti 6, 1-7) è tratta dal libro degli Atti degli Apostoli, scritto da san Luca, autore anche del terzo Vangelo. In esso si parla della vita della prima comunità cristiana e dell’evangelizzazione del Mondo, allora conosciuto, ad opera dell’apostolo Pietro e soprattutto dell’apostolo Paolo. In questo libro si legge: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola… fra loro tutto era in comune” (Atti 4, 32). Continuando la lettura di questo libro, al capitolo sesto, sembra che questa visione idilliaca della Comunità Cristiana non ci sia più. Sembra che la discussione vertesse sull’assistenza alle vedove, cioè alle persone più fragili e abbandonate. Allora gli Apostoli hanno pensato bene di istituire i Diaconi, in numero di sette (= 7 significa completezza). Ma continuando sempre la lettura degli Atti, veniamo a sapere che questi diaconi (specialmente Stefano e Filippo) non si occupavano della distribuzione di cibo, come degli impiegati della Caritas, ma facevano evangelizzazione. Si dovevano cioè occupare della Liturgia (= catechesi e preghiera) di quelle persone che non conoscevano l’ebraico, perché provenivano da paesi lontani (a causa della diaspora o dispersione) e parlavano meglio il greco.
Ma san Luca, parlando della prima comunità cristiana che aveva “un cuor solo e un’anima sola” (Atti 4, 32), ci racconta falsità? No! Egli ci presenta la Chiesa ideale, quella verso cui dobbiamo tendere.
Per vivere questa perfezione di vita cristiana, dobbiamo seguire il “pastore bello” (Giovanni 10, 11), che cammina davanti a noi e ci conduce nella casa del Padre. In questa casa, secondo il Vangelo di oggi (Giovanni 14, 1-12), Gesù va a prepararci un posto. Gli Apostoli, alla vigilia della Passione, erano pieni di paura. Avevano bisogno di conforto e di sicurezza. Il Signore li rassicura e per questo parla loro di un posto e di una dimora (= casa), perché tutti noi abbiamo bisogno di un luogo sicuro, dove vivere serenamente con gli altri.
Noi esistiamo per vivere con gli altri. “Nessun uomo è un’isola” diceva giustamente il monaco trappista americano Thomas Merton (1915-1968). Nella nostra vita di fedeli e discepoli di Gesù, abbiamo bisogno di sentirci in relazione, di fare comunione, di toccare con mano la presenza dell’altro, di vivere cioè in una Chiesa. Del resto anche Dio ha voluto conoscere la realtà umana. Dice il Vangelo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne” (Giovanni 1, 14). Gesù è proprio “nato da donna” (Galati 4, 4), come tutti noi. E nell’umanità di Gesù c’è la “pienezza della divinità” (Colossesi 2, 9).
Stiamo con Gesù, quindi, ascoltiamolo, poniamo nel cuore le sue parole. Egli ci insegna come entrare nella casa del Padre, come andare in Paradiso e vivere la comunione con Dio. Egli è la via (Giovanni 14, 6) di questa nuova realtà, che diventa la via verso la verità, per sperimentare in questo modo la pienezza della vita. Gesù non dice però di avere la verità, ma di essere la verità. Anche noi suoi discepoli dobbiamo essere come Lui, essere cioè la verità. Per questo dobbiamo essere inseriti in questo dinamismo dell’amore che vuole il bene della persona come un valore assoluto, che si trasforma quindi in servizio. E’ esattamente quello che i sette diaconi hanno fatto nella prima Comunità Cristiana di Gerusalemme.
Quando Gesù, durante l’Ultima Cena, ha lavato i piedi degli Apostoli, ha spiegato anche il senso di quel gesto. “Vi ho dato un esempio – ha detto il Signore, – perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Giovanni 13, 15). Siamo chiamati a mettere in pratica questo gesto di Gesù attraverso il servizio, a manifestare cioè fra di noi l’amore reciproco, che è appunto l’unico comandamento che il Signore ci ha lasciato, buttando a mare i 613 precetti della Legge Mosaica: “Vi do un comandamento nuovo – ha detto Gesù: – che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13, 34-35).
Gesù lo ha ripetuto più volte anche nel Vangelo di Matteo (Matteo 25, 31-46): allo straniero, all’affamato, all’assetato, al malato, a colui che è solo e senza mezzi noi dobbiamo dare il nostro cuore, perché è nel volto di quelle persone che noi scopriamo quello di Gesù.
San Daniele Comboni (1831-1881) insegnava la stessa cosa, quando, andando verso la Nigrizia, cioè verso i popoli dell’Africa Centrale, diceva ai suoi Missionari: “Gli apostoli, che marceranno a quella grande conquista (= si tratta dell’evangelizzazione dell’Africa Centrale), non porteranno all’Europa le spoglie dei vinti; ma ai vinti recheranno il tesoro della fede… Ad imitazione del Divin Pastore…, prenderanno sopra le loro spalle quelle misere pecorelle per accompagnarle nell’ovile della Chiesa!”.
Tonino Falaguasta Nyabenda
33084 CORDENONS (PN)