Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

Questa Domenica è la seconda Domenica di Pasqua, chiamata anche Domenica in Albis (= la domenica cioè in cui si deponeva la veste bianca, ricevuta la notte di Pasqua, in occasione del Battesimo).

Il 5 maggio 2000, Papa Giovanni Paolo II ha voluto istituire, proprio in questa Domenica, la Festa della Divina Misericordia, in seguito alle rivelazioni private avute da santa Fawstina Kowalska (1905-1938). La Divina Misericordia non è una scoperta recente, ma un insegnamento autentico dei Vangeli che riferiscono le Parole e i Fatti di Gesù (Atti 1, 21-23). Xavier Léon Dufour, gesuita francese e biblista, a proposito della Divina Misericordia ci riporta addirittura nel Vecchio Testamento. Partendo dalla lingua di Gesù, l’ebraico, abbiamo due termini per tradurre l’italiano misericordia. Rahamin (= le viscere) indica l’attaccamento di un essere a un altro. Il secondo termine hesed (= utero), significa fedeltà misericordiosa. Sappiamo che Dio conosce la debolezza umana. Per questo il salmista grida: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità” (Salmo 50, 3). Nei Vangeli, secondo il biblista francese Jules Cambier, addirittura la perfezione si identifica con la misericordia. “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Luca 6, 36). La misericordia non solo definisce la perfezione, ma è una condizione necessaria per entrare nel Regno dei Cieli (Matteo 5, 7). E alla fine della vita saremo giudicati proprio in base alla misericordia (Matteo 25, 31-46).

Il Vangelo di oggi (Giovanni 20, 19-31) ha molti insegnamenti preziosi. Intanto si parla di “otto giorni dopo” (Giovanni 20, 26). E’ Gesù stesso che istituisce, con le sue apparizioni, il ritmo settimanale della celebrazione eucaristica. E’ il giorno primo e ottavo. Cioè siamo nel giorno che non ha più tramonto, perché tutto è ormai illuminato dalla luce del Risorto. Quando leggiamo i Vangeli, nei nostri incontri liturgici, incominciamo sempre dicendo: “In quel tempo…”, perché il racconto che proclamiamo ci ri-presenta l’evento. Così diventiamo contemporanei e partecipi dell’evento che ci viene proclamato nella lettura del Vangelo durante la Messa. La Domenica ha dunque un ritmo settimanale e la parola significa: “Giorno del Signore”. In ebraico poi non esistevano le cifre arabiche (diffuse in Occidente da Fibonacci Leonardo, matematico pisano del secolo XII), ma si utilizzavano le lettere dell’alfabeto. Otto è la somma dei numeri delle lettere della parola Masiah, che vuol dire Messia (= Cristo).

Il Vangelo di oggi incomincia con il giorno di Pasqua. Gli Apostoli erano riuniti in una casa di Gerusalemme con le porte chiuse (forse nel Cenacolo). Avevano paura, perché le autorità religiose avevano spiccato un mandato di cattura per Gesù e i suoi discepoli. I capi volevano far condannare il Signore, reo confesso di bestemmia (Luca 22, 70-71), non secondo la Legge Mosaica, che prevedeva la lapidazione (Levitico 24, 16), ma secondo la Legge romana, e cioè con la condanna alla crocifissione. Con questa condanna ignominiosa si voleva far sparire anche la dottrina di Gesù, che, se messa in pratica, avrebbe distrutto la religione tradizionale, per instaurare il Regno di Dio, aperto all’umanità intera, non più fondata sulla Legge Mosaica, ma sul precetto dell’amore misericordioso di Dio. Per questo i discepoli erano rinchiusi, forse nel Cenacolo. Gesù apparendo disse: “Shalom = Pace a voi!” (Giovanni 20, 19). E’ il saluto del Cristo risorto, vittorioso. Grazie alla sua risurrezione, ha vinto il Mondo, il peccato e la morte. Agli Apostoli stupefatti Gesù si presenta non come il Gesù di Nazareth crocifisso, ma come il Crocifisso Risorto. Per questo Egli mostra loro le mani, i piedi, il costato e cioè i segni della sua Passione, che resteranno per sempre sul suo corpo glorioso.

All’apparizione di Gesù, la sera di Pasqua, non c’era Tommaso. Il Cristo si è fatto vivo in mezzo alla comunità dei discepoli. Perché è sempre nell’Eucaristia, celebrata insieme, che sperimentiamo la presenza del Signore, come amore donato e poi comunicato (= nell’annuncio del Vangelo agli altri e nel servizio fraterno). Tommaso non c’era, perché non era pauroso come gli altri. Egli aveva detto, quando Gesù espresse la volontà di andare a Betania per far risuscitare Lazzaro: “Andiamo anche noi a morire con Lui” (Giovanni 11, 16). La sera di Pasqua dunque, Tommaso, detto Didimo (= gemello in greco) non c’era. I discepoli, una volta che Tommaso fu di nuovo in mezzo a loro, dissero: “Abbiamo visto il Signore!” (Giovanni 20, 25). E Tommaso: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi… e non metto la mia mano nel suo fianco, non credo!”. Sembra che in questo modo sia messa in risalto l’incredulità di Tommaso. Anche il celebre quadro del pittore Caravaggio (1571-1610) pare sostenere questa interpretazione. Ma non è così. E lo dice espressamente il biblista Alberto Maggi. Infatti la domenica successiva, quando Gesù si presentò, Tommaso c’era. E il Cristo lo interpellò: “Metti qui il tuo dito… Tendi la tua mano…” (Giovanni 20, 27). Tommaso rispose: “Mio Signore e mio Dio!” (Giovanni 20, 28). E’ la più alta espressione di fede in Gesù, come Cristo e come Figlio di Dio di tutti i Vangeli.

Tommaso è detto Didimo, che vuol dire gemello. Forse Tommaso è gemello di Gesù, perché come Lui, è disposto a dare la vita. Ma può essere gemello di ognuno di noi, perché, partecipando all’Eucaristia, vogliamo essere come Tommaso, disposti a donare la vita per il servizio del prossimo. Cioè mettendo in pratica il comandamento della carità, l’unico che il Signore ci ha lasciato (Giovanni 13, 34). Infatti l’amore del prossimo ci permette di sperimentare la presenza di Gesù Risorto e di entrare nel Regno di Dio.