Padre Luigi Consonni
Prima lettura (1Sm 16,1b.4.6-7. 10-13)
In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.
Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».
Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.
Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.
Il brano racconta la consacrazione del re Davide in sostituzione di Saul che rigetta la parola del Signore (15,23). Il profeta Samuele, scosso interiormente, è incaricato dal Signore di compiere la missione ed esorta Davide a non indugiare e guardare in avanti: “Fino a quando piangerai su Saul (…) ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re”.
Al profeta è presentato il primogenito Eliàb. Colpito dall’aspetto fisico, e primogenito, ritiene che sia il prescelto: “Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!”. Ma la risposta del Signore è diversa: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura” e il motivo è “perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”.
Per la bibbia, il cuore è l’interiorità della persona, cioè la coscienza dell’uomo dotato di intelligenza e spiritualità. È la sede dei pensieri, delle intenzioni, delle scelte decisive; il centro motore della persona, che determina il progetto di vita e le azioni corrispondenti. (Nella nostra cultura invece è la sede degli affetti, delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni). In esso sono posti gli occhi del Signore.
L’uomo non ha condizione né capacità e, a volte, neppure la volontà di penetrare nel profondo del cuore, affascinato e attratto dall’esteriorità, dalle apparenze. Di conseguenza è rivolto a guadagnare il consenso e l’ammirazione di altri. Ma il “vedere” del Signore è su ben altro versante!
Solo l’attenta osservazione del rapporto fra parole e azioni, il contenuto e il comportamento (soprattutto nei momenti della prova) permette di comprendere la qualità del cuore, salvo la perversione occultata dall’ipocrisia di porre la maschera che nasconde quel che si è per apparire quello che non si è. (È ciò che Gesù non tollera e respinge con fermezza).
Di tutti i figli, Davide è colui che riceve la minore considerazione da parte del padre. Alla domanda di Samuele se ci sono altri figli, Iesse risponde: “Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge”. È proprio costui il prescelto da Dio che ordina a Samuele di ungerlo: “… è lui (…) e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi”. Iesse probabilmente rimane molto sorpreso e sconcertato dalla scelta: il diverso discernimento fra lui e il Signore anche oggi mette in guardia sull’autenticità o meno della persona. Gli aspetti da prendere in considerazione vanno ben oltre le proprie idee, progetti, punti di vista (sono sempre la vista di un punto!) o dell’esteriorità, dalla superficialità delle apparenze. Occorre attenzione, sincerità e coerenza nel proprio mondo interiore per il corretto essere e agire.
Per discernere l’autenticità e la verità dei sentimenti, delle parole e degli atti propri e altrui, occorre verificare la sincera e umile conoscenza di sé stessi, con particolare attenzione all’ambiguità del cuore segnata, da un lato, dalla qualità dell’amore nei rapporti interpersonali e sociali per la presenza dello Spirito di Dio e, dall’altro, dal suo contrario, l’involuzione egocentrica ed egoista in sé stesso, fonte di ogni male.
Il processo non è semplice né facile, per le insidie ingannevoli e le illusioni. Richiede particolare attenzione all’autenticità del vissuto e dei sentimenti, in modo da percepire, con la maggiore nitidezza possibile, la trasparenza necessaria per rilevare i meccanismi, le motivazioni, i valori e il loro contrario che regolano la vita.
La libertà interiore, privata da ogni forma di auto-assoluzione (tolleranza ingiustificata di sé stesso, dei propri limiti e debolezze) e l’assunzione di valori di senso dell’esistenza, sono condizioni per orientare correttamente l’attenzione ai sentimenti, alle parole e agli atteggiamenti altrui.
L’autenticità con sé stesso, e la trasparenza del proprio essere, sono imprescindibili per il rapporto di vera amicizia e di comunione. Non solo, ma la comunione e l’amicizia, gestite correttamente, rivelano in trasparenza la filigrana nella quale percepire la presenza del Signore e l’immersione nella luce del mistero dell’amore trinitario.
La trasparenza è luce che vince le tenebre dell’inganno e del male, come indica la seconda lettura.
Seconda lettura (Ef 5,8-14)
Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.
Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto:
«Svégliati, tu che dormi,
risorgi dai morti
e Cristo ti illuminerà».
Paolo pone l’accento sul passaggio dei credenti dalle tenebre alla luce: “un tempo eravate nelle tenebre, ora siete nella luce del Signore”, per gli effetti della morte e risurrezione di Gesù. Mai, prima di allora, costoro hanno pensato che Gesù li riscattasse dai loro peccati – “le tenebre” – con l’instaurazione dell’evento del Regno di Dio a favore loro e dell’umanità intera.
Erano lontani dal pensare che Gesù stabilisse il nuovo patto, la nuova Alleanza con Dio e che, per la fiducia nella sua opera, la vita eterna li coinvolgesse nell’amore trinitario, luce della loro vita. Ecco, allora, l’esortazione: “Comportatevi perciò come figli della luce” nel testimoniare l’efficacia del coinvolgimento e della vittoria sulle tenebre. Le tenebre del cuore – riguardo il progetto di Dio di una nuova società – danneggiano e ingannano la persona, umiliano la convivenza fraterna, l’etica sociale e il rispetto del creato. La vittoria è la manifestazione dell’avvento del regno di Dio, della sua Signoria nella persona, nella società e nel creato.
Paolo indica tre elementi che scaturiscono dalla luce: “ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità”, che abbracciano la totalità della persona e costituiscono il contenuto dell’azione salvifica a suo favore, ossia della società e del creato, l’Eden, che Dio ha posto nelle mani e nella cura dell’uomo.
Il termine “bontà” comprende tutto ciò che sostiene l’identificazione con Gesù: lo stile di vita e i rapporti interpersonali e sociali in sintonia con la finalità della missione. La “giustizia” è fare propria la causa del Regno di Dio con determinazione, coraggio e audacia con il dono di sé stessi, in modo che la buona notizia del vangelo diventi buona realtà anche per i destinatari.
La “verità” ha la radice nella percezione dell’inabitazione della Trinità – “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23) – la cui potenza e attività, nell’intimo della persona, declina la bontà e la giustizia. La verità non è tanto nell’ordine della riflessione e del pensiero, quanto nell’azione.
L’apostolo esorta: “Cercate di capire ciò che è gradito al Signore”, con impegno, intelligenza, volontà e sforzo, perché non sempre è facile determinarlo con sufficiente chiarezza nell’attuare la “giustizia e la verità” nel contesto e nelle circostanze della vita personale, familiare e sociale.
In generale, tre domande aiutano il processo di discernimento:
1. la persona consolida la determinazione e la convinzione di donarsi per la causa del Regno?
2. la società cresce nella pratica del diritto e della giustizia sociale?
3. il creato è rispettato quale giardino di Dio, per il bene di tutti?
Ma, da un altro lato è facile cadere nell’inganno, per la seduzione di interessi propri o di lobby, per la perversità che motiva rapporti di dominio, che sostiene il preconcetto all’emergere del nuovo, il disprezzo per il diverso, e altro.
Pertanto Paolo ammonisce: “Non partecipate delle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente”. Tali opere sanciscono l’allontanamento da Dio. Per non cadere nella loro seduzione e inganno è necessario vegliare sulla propria vulnerabilità e fragilità, in modo che il loro potere non prenda il sopravvento.
La condizione di figlio della luce declina la pronta l’attenzione al discernimento e alla lotta fra due mondi opposti. E il Signore dona la vittoria, la salvezza e, con essa, l’autenticità di sé stessi che sostiene e anima la comunione nella diversità e la corretta gestione della complessità sociale.
Vale rilevare che il discernimento va molto oltre la griglia offerta dalle norme e dalle leggi stabilite. È generale la consapevolezza del divario fra la materialità della legge e lo spirito della stessa, e come il divario apre un grande spazio per considerazioni di creatività audace e coraggiosa, al fine di elaborare risposte opportune.
D’altro lato, è doveroso mantenere distanza dalle “opere delle tenebre”, il che esige chiarezza riguardo ai meccanismi e alla logica intrinseca di esse perché ingannano presentando come corretto ciò che non lo è. Le tenebre giocano d’astuzia con la mezza verità e nascondono la seconda parte dalla quale, con l’adesione alla proposta fuorviante, emergerà l’inganno. E molte volte, purtroppo, non c’è rimedio.
Il discernimento richiede dialogo e contributo di altri, nell’umiltà di considerare il proprio punto di vista come la semplice vista di un punto. Ogni analisi, per quanto necessaria e corretta sia la conclusione, è sempre provvisoria, perché circostanziale al caso specifico e al suo contesto.
I frutti danno senso alla validità o meno del discernimento, nella misura in cui sono in sintonia con il fine ultimo dell’esistenza: il farsi dell’avvento del Regno, della pienezza di vita e la partecipazione alla gloria di Dio.
Tali sono le opere riportate del Vangelo.
Vangelo (Gv 9,1-41) – adattamento dal commento di Alberto Maggi
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».
Il capitolo 9 del vangelo di Giovanni contiene un severo atto di accusa contro la cecità di un’istituzione religiosa, per la quale il bene della dottrina è più importante del bene dell’uomo. Questo è il contesto: Gesù esce, o meglio scappa dal tempio, dopo un tentativo di lapidazione ma, uscendo, incontra persone che non possono entrare nel tempio, gli esclusi. Leggiamo il capitolo 9 di Giovanni.
“…passando vide un uomo cieco dalla nascita”; la cecità non era considerata un’infermità, ma un castigo, una maledizione inviata da Dio per le colpe degli uomini. Per discolpare Dio dei mali, si accusava l’uomo. Perché esiste il male? Perché l’uomo ha commesso un peccato, e il Signore lo castiga.
“…e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?»”; quindi che la cecità fosse una conseguenza del peccato, era indubbio, il problema era sapere se avesse peccato già l’individuo o i suoi genitori. Gesù esclude tassativamente alcun rapporto tra il male, il peccato e il castigo divino. Dice: non “ha peccato né lui, né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.
Gesù continua l’azione creatrice del Padre e, a questo individuo, dopo aver detto che lui è la luce del mondo, “fece del fango con la saliva, lo spalmò sugli occhi”: sono gli stessi gesti che ha fatto Dio nella creazione del primo uomo; quindi Gesù continua la sua azione creatrice. Poi lo manda nella piscina di Siloe, questa piscina importante di Gerusalemme, che significa, sottolinea l’evangelista, l’“Inviato”; perché? Andando verso l’inviato, ossia Gesù, che ha detto di sé “sono la luce del mondo”, si recupera la vista. Infatti “Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”.
Ma cominciano i problemi per quest’individuo, che non viene riconosciuto nemmeno dai vicini; alcuni dicono: è lui, non è lui, ma come fanno a non riconoscerlo? Non è che gli siano stati cambiati i connotati (prima non aveva la luce degli occhi, ora è tornato a vedere), ma ha recuperato la vista. Perché non viene riconosciuto? Perché, quando si incontra Gesù, si acquista una libertà, una dignità tale che pur se si è come prima, si è, tuttavia, completamente diversi. E lui, l’ex cieco, risponde: non sono io, ma “io sono!”, ossia rivendica per sé il nome divino, il nome esclusivo che, nella Bibbia, è adoperato per Dio, e, nei vangeli, per Gesù. Perché? Come è scritto nel prologo di Giovanni, a quanti lo hanno accolto (si riferisce a Gesù) ha dato la capacità di diventare figli di Dio.
Allora incomincia una serie di interrogatori, e, per la prima volta, – ben sette volte sarà ripetuto -, gli chiedono: ”«In che modo ti sono stati aperti gli occhi?»”.
È questo il tema di questo brano: aprire gli occhi era un segno della liberazione che il messia avrebbe portato al popolo oppresso. Infatti c’è un cieco che ha recuperato la vista (è una cosa buona), ma il popolo non può avere un’opinione, il popolo dev’essere sempre sottomesso a quello che pensa(no) le autorità religiose: sono loro che stabiliscono se è bene o male.
Allora portano dai farisei, leader spirituali del popolo, quello che era stato cieco; ed ecco il la causa del problema: era il giorno di sabato. Quel giorno bisognava osservare quello che è considerato il comandamento più importante: c’è una serie di lavori, ben 1521 azioni che sono proibite e, tra queste, fare del fango e curare gli ammalati. Quindi qui c’è stata una trasgressione, una violazione del sabato.
E i farisei, di nuovo, gli chiedono come ha recuperato la vista, e danno una sentenza: “quest’uomo” (Gesù) “non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Per loro venire o no da Dio dipende dall’osservanza o meno della legge. Per Gesù, venire o no da Dio, invece, dipende dall’atteggiamento che si ha nei confronti dell’uomo. Ma, per i farisei, l’unico criterio di giudizio è l’osservanza della legge.
Però c’è dissenso, e altri gli chiedono: ma come può un peccatore compiere qualcosa del genere? Lo chiedono di nuovo al cieco, e qui c’è l’ironia dell’evangelista: i farisei ambivano al titolo di guide dei ciechi, e sono ciechi. Invece quello che era stato cieco e che ora ha riacquistato la vista dice “è un profeta”; loro hanno detto “non viene da Dio”, lui dice è che un profeta, quindi viene da Dio.
Entrano in campo le massime autorità religiose, i Giudei; questo vangelo non indica con questo termine il popolo, ma i capi religiosi che non vogliono credere che fosse stato cieco.
Per difendere la loro dottrina negano l’evidenza: le autorità religiose, di fronte ai nuovi avvenimenti della vita, non avendo risposte da dare, s’intrecciano nell’assolutismo della loro dottrina e negano l’evidenza, pur di non trovare contraddizioni nella loro stessa dottrina, e lo intimidiscono.
Intimidiscono i genitori con un interrogatorio nel quale mettono in dubbio che sia loro figlio e che sia nato cieco; e i genitori rispondono in una maniera che sembra codarda: noi non lo sappiamo, lui ha la sua età, chiedetelo a lui.
Perché rispondono così? Lo dice l’evangelista: “questo dissero i suoi genitori perché avevano paura dei Giudei”, i capi religiosi, che “avevano già stabilito che se uno avesse riconosciuto Gesù come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”.
Essere espulsi dalla sinagoga non significava essere cacciati da un luogo di culto, il che non sarebbe stato poi un gran danno, ma comportava l’esclusione dalla vita civile, dalla vita sociale. Con gli espulsi dalla sinagoga occorreva tenere una distanza di ben 2 metri, e non si poteva né comprare né vendere alcuna cosa, e quindi era la morte civile.
“Di nuovo chiamarono l’uomo” che, da miracolato, passa ad imputato, e gli dissero: “dà gloria a Dio!”. Questa è una formula, un’espressione che significa riconoscere, confessa la verità, anche se viene a tuo svantaggio, a tuo discapito. E poi la sentenza; mentre i farisei erano divisi tra chi diceva che era un peccatore e chi diceva “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?” loro non hanno dubbi. Le autorità religiose non hanno mai dubbi, per loro è tutto chiaro: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”; ed ecco qui entra tutta l’ironia dell’ex cieco, che risponde praticamente dicendo: sentite, io di teologia non so niente, io parlo della mia esperienza. E, infatti, afferma: “se sia un peccatore non lo so”, questo è affare vostro se sia un peccatore o meno; “una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo”.
Lui parla in base alla propria esperienza: voi dite che è un peccatore, a me non interessa, la mia esperienza dice che per me questo è positivo. L’evangelista qui sta dicendo che il primato della coscienza è il più importante di qualunque dottrina, fosse pure una legge divina: il bene e il male lo decide l’uomo in base alla propria esperienza, non in base a una dottrina che decreta ciò che è bene o ciò che è male. Quindi lui dice: io in campo teologico non mi ci metto, parlo della mia esperienza.
E di nuovo, per la quinta volta, (per ben sette volte lo ripeteranno): “come ti ha aperto gli occhi?” (è questa la preoccupazione delle autorità religiose, perché se il popolo apre gli occhi, per loro è finita, è la fine di tutto). E, sempre con ironia, quello che era stato cieco, chiede: “ma volete diventare discepoli anche voi?”.
Quando le autorità religiose non sanno come rispondere, come ribattere, passano alla violenza, prima verbale e, se possibile, anche fisica: “lo insultarono” dicendo “tu sarai il discepolo, noi siamo i discepoli di Mosè.
Essi non seguono Gesù vivente, ma un morto, Mosè; “noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio”, e, poi, con un termine dispregiativo – nei vangeli i capi, i farisei non nomineranno mai Gesù, ma sempre useranno quest’espressione – “questo non sappiamo di dove sia”.
Ora entra in gioco il buon senso dell’ex cieco nato: il buon senso della gente è più vero e più importante dei valori della dottrina, e lui fa un ragionamento molto semplice: non si è mai sentito dire che un cieco nato abbia recuperato la vista; se costui non venisse da Dio non avrebbe potuto far nulla.
È talmente chiaro, come fanno le autorità religiose a non comprendere questo? Non sapendo come controbattere, gli replicano con violenza: “sei nato tutto nei peccati e insegni a noi”! Loro non desiderano apprendere, loro sono quelli che insegnano, “e lo cacciarono fuori”.
Il povero ex cieco nato dovrebbe tornare ad essere cieco, per dare loro ragione. Aver riacquistato la vista è un male, perché questa vista l’ha riacquistata attraverso un peccatore. Ma, essere scacciato dalla religione, per lui, non è un danno perché trova la fede, trova Gesù che lo accoglie; Lui dà adesione a Gesù, e il brano termina con una sentenza molto severa di Gesù rivolta ai farisei, che ambivano al titolo di guide dei ciechi.
Gesù dice loro: “«Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane»”. Quale è la loro cecità? Mettere il bene della dottrina, della legge, al primo posto, prima ancora del bene degli uomini: questa è la cecità che impedisce di leggere gli avvenimenti della storia.