Padre Luigi Consonni

Prima lettura (Es 17,3-7)

In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».
Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!».
Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà».
Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?”. È un momento intensamente drammatico per Mosè, al punto che grida: “Ancora un poco e mi lapideranno!”. La mancanza d’acqua nel deserto fa sì che il popolo metta in dubbio il senso dall’uscita dell’Egitto e, particolarmente, la prospettiva della terra promessa, il fine della liberazione e del cammino verso la meta.
Dopo l’affrancazione dalla schiavitù in Egitto e l’Alleanza stabilita nel Sinai, dopo la garanzia della terra promessa verso la quale sono diretti e dove scorrerà “
latte e miele” – metafora di condizioni ottimali – il popolo s’imbatte nell’imminente prospettiva di morte per la mancanza d’acqua nel deserto. Si diffonde nel popolo il panico e, con esso, la coscienza che tutto sia inganno, una tragica illusione, al punto che Mosè percepisce il pericolo per la propria vita.
Per il popolo l’uscita dall’Egitto si presenta come una pazzia. Anche Mosè è profondamente scosso dato che la situazione non è più sotto controllo e lui stesso non sa cosa fare, al punto che non gli resta che gridare “
al Signore dicendo: ‘Che cosa farò io per questo popolo?’”.
Nella circostanza il popolo non comprende né il senso della liberazione né dell’Alleanza e ritiene ingannevole, illusoria, la promessa del Signore riguardo alla sua costante presenza nel cammino verso la terra promessa, al punto che essi si domanda: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”.
In tutti i tempi ci sono circostanze e momenti della vita, personale e sociale, che suscitano lo stesso stato d’animo. Le persone coinvolte hanno lo stesso atteggiamento e si chiedono perché ciò avvenga, perché stia accadendo il contrario delle legittime attese nelle quali hanno investito la fiducia, il comportamento e l’impegno.
L’esperienza drammatica suscita un grande turbamento che si declina nei rapporti interpersonali, sociali e, particolarmente verso le autorità responsabili della condizione della vita del popolo. Il dubbio verso quest’ultime è inevitabile e la ricerca di possibili cause o errori, anche involontari, non trova motivi validi che possano giustificare quel che sta accadendo.
La circostanza della mancanza d’acqua nel deserto è pesante. Non è difficile immaginare lo stato d’animo di chi si trova in un vicolo cieco, impreparato ad affrontare una simile circostanza e inadeguato nel trovare risposte e mezzi risolutivi.
Il primo atteggiamento è simile a quello di Mosè: gridare al Signore, chiedergli il perché e cosa fare, dato che la risposta può venire solo da Dio. Il testo racconta dell’intervento del Signore, con parole che ricordano il passaggio del mar Rosso:
“Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele (…) prendi il bastone con cui hai percosso il Nilo (…) ecco io starò davanti a te là sulla roccia (…) batterai sulla roccia, ne uscirà acqua e il popolo berrà”.
In un altro passo biblico, la risposta di Dio al profeta Geremia, in profonda crisi come Mosè e il popolo, offre una ipotesi del motivo dell’accadimento: “Se ritornerai, io ti farò ritornare e starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca” (Ger 15,19).
Mosè fa ciò che ha indicato il Signore. Il testo non lo dice ma, probabilmente, il richiamo al passaggio del mar Rosso ha provocato in lui un impatto molto forte. Probabilmente la memoria dell’evento del mar Rosso fa emergere, nell’intimo oppresso e angosciato da una fede affievolita, la portata dell’avvenimento e il senso profondo della fedeltà del Signore all’Alleanza e, con essa, la certezza che il Signore provvederà nella circostanza. In ogni caso Mosè non è all’altezza della fede mostrata in altri momenti e, di conseguenza, gli sarà impedito l’ingresso nella terra promessa. La vedrà solo da lontano, dando l’incarico a Giosuè di condurre in essa il popolo.
Il Signore conosce la debolezza strutturale di ogni credente e del popolo, e fa in modo che, nel riaffermare la fedeltà all’alleanza, alla sua presenza e soprattutto alla promessa, tutti prendano coscienza della solidità del suo essere e della sua azione, anche in momenti particolarmente critici, in modo che consolidino la fiducia nelle difficoltà e prove che non mancheranno in futuro.
Al riguardo, la memoria e il compimento della giustizia e del diritto svolgono il consolidamento della fede nella promessa (si tratta della fede ultima e definitiva [fede escatologica] in termini teologici) riguardo alla salvezza del popolo. Anche oggi circostanze simili sono un’opportunità per rilevare come tale fede si affievolisca, o addirittura svanisca, nonostante segni mirabili e sorprendenti che hanno accompagnato circostanze precedenti, e di cui si è testimoni, se non si prendono gli adeguati provvedimenti.
Non si tratta della ripetizione di miracoli e/o segni sorprendenti, ma di attivare la memoria riguardo a quello che Gesù realizza e offre al credente, ricostruendo, rigenerando la comunione con Dio e l’armonia con sé stesso, anche trasmettendo e coinvolgendo altri nello stesso processo.
È ciò che Gesù attualizza in ogni momento per la memoria dell’evento pasquale, riferimento principale della seconda lettura.

Seconda lettura Rm (5,1-2.5-8)
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

Per l’evento alla porta di Damasco, momento in cui da persecutore diventa apostolo, Paolo sintetizza per la comunità lo stravolgimento irreversibile del suo mondo interiore e del contenuto della fede. E afferma: “Fratelli, giustificati per la fede (…)”. A quale fede si riferisce? A quella che Gesù ha originato.
La lettera agli Ebrei esorta a tenere “fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (12,2). È la fede di Gesù – l’uomo, il vero uomo – nel Padre e nello Spirito Santo che impianta “l’ultimo e definitivo” dell’essere, della vita, dell’esistenza già nell’oggi, nella persona e nella comunità credente; fede estensiva all’umanità. È la fede escatologica (termine biblico di “’ultimo e definitivo”) di Gesù, che “porta a compimento” con l’evento della Pasqua.
giustificati per fede” è un’affermazione centrale del Nuovo Testamento che rivoluziona in tutti la comprensione del compimento della missione di Gesù, con l’avvento del Regno di Dio nel credente e nell’umanità di tutti i tempi. È un evento oggettivo per la volontà della Trinità e l’azione di Gesù, fedele alla causa dell’avvento del Regno nel presente, nell’oggi (Lc 4, 16- 21).
E Paolo, cosciente di tale realtà, afferma: “(…) Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede (che accoglie e sintonizza con l’evento escatologico) l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo”. La “grazia” è l’accoglimento del dono gratuito della giustificazione davanti al Padre che dà spazio all’azione e alla forza dello Spirito. Cosicché l’evento oggettivo, realizzato da Cristo, diventa soggettivo nel credente, nella comunità.
Nell’accoglierlo per la fede in Gesù – profeta escatologico – emerge nell’intimo della persona e nella vita della comunità il dono della giustificazione, realtà sorprendente e immeritata. Cosicché la condizione “nella quale ci troviamo” è vedere sé stessi come Dio ci vede – metaforicamente con gli stessi occhi di Dio – quali figli nel Figlio, figli per adozione, nuove creature, trasformate, rigenerate e rinnovate interiormente al punto da rimanere stupiti e meravigliati del dono. E “ci vantiamo”, nel senso di elogiare, lodare e magnificare la qualità del dono.
L’effetto è duplice. Da un lato “siamo in pace con Dio”, il cui significato ha lo spessore ben più profondo di quello che comunemente si intende, perché abbraccia l’armonia con sé stesso, con la comunità, con la società, con il creato e, ovviamente, con Dio. Armonia che manifesta la circolarità fra l’amante e l’amato nella dinamica dell’amore.
Dall’altro lato siamo “saldi nella speranza della gloria di Dio. La speranza non delude”. Questo perché la speranza ha fondamento e consistenza per la fede. Quest’ultima non racchiusa nell’intimo, ma attiva nell’accogliere l’avvento del regno nei rapporti interpersonali e sociali, fa emergere la “speranza che non delude” nel possedere quel che si spera (Eb1,1a).
La giustificazione per la fede apre la partecipazione alla gloria di Dio, come speranza già in atto. Allo stesso tempo la speranza configura la garanzia che non delude, la piena e completa esperienza della gloria di Dio per l’evento escatologico presente. In altre parole, porta in sé la conosciuta tensione ultima e definitiva tra il “già” e il “non ancora” dell’evento trinitario, ma anche il contrario, il “non ancora” nel “già”, nel quale è immersa la persona, la comunità e, oggettivamente, l’umanità intera e il creato.
La causa di tale processo è “l’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Lo Spirito Santo è lo spazio dove si elabora il pensiero, la riflessione, il progetto di vita che motiva e sostiene scelte e comportamenti adeguati (il cuore, in senso biblico).
Ogni persona è chiamata a essere spazio nel quale si attiva l’amore che Dio riversa su di lei; spazio che attiva anche lo stesso processo che ha sorretto Gesù nella solitudine orante, nel far sì che la fede escatologica diventi lo spazio dello Spirito in ordine al compimento della missione, conformando e testimoniando “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2).
Paolo evidenzia la sorprendente gratuità e radicalità dell’amore di Dio in Gesù, per la sua fede nella causa del Regno: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. In questo sconvolgente contesto i vangeli testimoniano che Gesù elabora in sé stesso un equilibrio umano, psicologico, morale e spirituale, che gli permette, pur nella solitudine più profonda, di essere autenticamente sé stesso, nonostante l’incomprensione e il rifiuto sconcertante.
È l’amore per la causa del Regno l’orizzonte di comprensione del dialogo di Gesù con la samaritana, riportato nel vangelo odierno.

Vangelo (Gv 4,5-42)
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.
Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».
Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».
Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».
Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

Il testo presenta il dialogo fra due estremi: da un lato Gesù e dall’altro la samaritana. Quest’ultima riunisce in sé tre aspetti che configurano, nella mentalità dell’epoca, l’eretica, la peccatrice e la donna, caratteristiche che la collocano al livello infimo dal punto di vista religioso, personale e sociale. A peggiorare le cose il dialogo si svolge all’aperto, in pubblico, luogo ritenuto sconveniente dalle consuetudini, al punto che i discepoli “si meravigliavano che parlasse con una donna”.
La donna manifesta il suo pregiudizio sociale e religioso: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me che sono samaritana?”. Gesù non raccoglie la provocazione ma compie un passo in avanti. Suscita in lei la curiosità e il desiderio di capire la portata di quello che va dicendo, aprendo orizzonti inediti nel mondo della donna: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ’dammi da bere!’”.
Nella prima parte del dialogo il punto d’arrivo sembra piuttosto deludente. La donna, con una dose di ironia, risponde sul versante della convenienza e del risparmio della fatica: “Signore, dammi quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”.
Ma Gesù cambia registro: “Va e chiama tuo marito e ritorna qui”. Il dialogo che segue permette alla donna di scoprire in Gesù un uomo di Dio: “vedo che sei un profeta”. E pone un quesito al quale solo un profeta può fornire una risposta autorevole: “I nostri padri hanno adorato in questo monte; voi invece dite che è in Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”.
La risposta di Gesù puntualizza che non si tratta di un determinato luogo geografico del tempio né che la salvezza viene dai Giudei, ma afferma che “
i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così, infatti, il Padre vuole che siano quelli che lo adorano (…) devono adorare in spirito e verità”.
L’adorazione al Padre, “
in spirito e verità”, non è un culto che rigetta la manifestazione pubblica ed esteriore, bensì quello che si svolge sotto l’impulso dello Spirito e nella verità che Gesù sta divulgando e insegnando, con la sua attività pastorale, per l’accoglienza dell’avvento del Regno, ambito di salvezza nel presente – oggi – della persona, della comunità credente, estensivo all’umanità intera.
Di fatto la persona e la società sono lo spazio in cui lo Spirito elabora un nuovo ordine personale e sociale, conforme all’esigenza dell’Alleanza e in sintonia con la promessa di fare nuove tutte le cose, che fanno della persona e della società lo spazio dello Spirito del Risorto, in virtù del quale si fa la Verità quale trasformazione e rigenerazione della persona e della società, conoscendo il senso ultimo dell’essenza e dell’esistenza di tutti e di tutto.
In tale processo il culto diventa azione, opere che impegnano radicalmente la volontà, l’intelligenza e la memoria nella ricerca dell’elaborazione di risposte e comportamenti adeguati all’accoglienza dell’avvento della sovranità di Dio nel farsi della Verità, l’identità profonda e autentica di sé stessi, del bene sociale e del rispetto del creato. Questo è adorare Dio.
La risposta di Gesù apre un orizzonte inedito e rinnovatore che sblocca la conflittualità ritenuta insolubile nel momento in cui si deve optare per una posizione o per l’altra. Essa suscita nella samaritana la vaga percezione che lo sconosciuto Gesù abbia a che vedere con il Messia, e afferma: “
So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando verrà, ci annuncerà ogni cosa”. La risposta offre a Gesù l’opportunità del passo successivo nel rivelare la sua identità: “Sono io che parlo con te”.
L’impatto nella donna è molto forte. Non si aspettava nulla di tutto ciò e, presa dalla singolare intuizione, è sconvolta al punto che lascia immediatamente l’anfora sul luogo dell’incontro, entra nella città e proclama: “
Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto”, domandandosi allo stesso tempo: “Che sia lui il Cristo?”, l’unto, il messia tanto atteso?
L’aver fatto notare la condizione profetica di Gesù e l’eventualità che fosse il Messia atteso, è sufficiente per attrarre l‘attenzione del popolo su Gesù per cui “
Molti samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: mi ha detto tutto quello che ho fatto”. È il passo intermedio alla conversione e adesione al Cristo di costoro che “alla donna dicevano: Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.
È enorme la distanza tra il momento iniziale e quello finale. Essa traccia il cammino e il processo di conversione e (senza entrare in altre considerazioni importanti per non dilungare troppo il commento) il brano rivela l’incapacità dei discepoli di rendersi conto di quel che sta accadendo. La qualità del dialogo di Gesù, il suo sereno agire, le argomentazioni che porta nei confronti del loro comportamento e della loro non-comprensione, indica che, il cammino di conversione e di trasmissione della buona notizia in buona realtà, necessita di mediazioni e contenuti in sintonia con l’ambiente, il contesto e la circostanza specifica.
Quanto è sorprendente la pluralità dei modi con cui Gesù si avvicina ad ogni persona, nel contesto e nelle situazioni più diverse!