Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

La terza Domenica di Quaresima ci parla dell’acqua. Per la Bibbia solo Dio ha la chiave delle sorgenti dell’acqua. Essa è divisa in due masse distinte. Ci sono le “acque superiori”, trattenute dal firmamento. Da qui scendono le piogge, quando Dio vuole. Poi ci sono le “acque inferiori”, che stanno nell’abisso. Da qui sgorgano i fiumi. E su tutto veglia Dio, perché ne è il padrone. Come dice Giobbe: “Se trattiene le acque, vi è siccità; se le lascia andare, devastano la terra” (Giobbe 12, 15). A questo proposito ascoltiamo il commento del celebre biblista francese M.-E. Boismard: “Il salmo 104 riassume a meraviglia il dominio di Dio sulle acque,… Regola il loro flusso; le trattiene affinché non sommergano la Terra, fa sgorgare le sorgenti e discendere la pioggia, grazie alla quale la prosperità si diffonde sulla Terra ed apporta la gioia al cuore dell’uomo”. Allora nel deserto, per il popolo assetato, Mosè fa sgorgare dalla roccia una sorgente d’acqua, grazie al bastone utilizzato per dividere le acque del mar Rosso. Mosè però, a causa della sua poca fede, percosse la roccia due volte, e non una volta, secondo l’ordine di Dio (Numeri 20, 11). Come castigo egli non metterà piede sulla Terra Promessa, ma potrà solo vederla dalla cima del monte Nebo.

C’è una tradizione talmudica che dice che la roccia (= un masso) era affidata alla sorella di Mosè, Maria, che si incaricava di trasportarla ad ogni spostamento del popolo e la tirava fuori, quando suo fratello doveva colpirla per ottenere dell’acqua, di cui Israele aveva bisogno per vivere nel deserto.

Anche l’apostolo Paolo conosceva questa tradizione e identificava la roccia con il Cristo. Egli ha scritto infatti: “Tutti (= i nostri padri) bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo(1 Corinzi 10, 4).

Ma oggi abbiamo una pagina stupenda del Vangelo di Giovanni (Giovanni 4, 5-42). Certamente non tutto quello che vi è scritto è uscito dalla bocca di Gesù, ma il tutto si basa su un fatto certo, avvenuto nella vita del Signore. Egli si trovava a Gerusalemme per la Pasqua; ebbe modo di incontrare Nicodemo (Giovanni 3, 1-21) e di esprimere un giudizio su Giovanni il Battista. Poi lasciò la Giudea per recarsi in Galilea. “Doveva perciò attraversare la Samaria” (Giovanni 4, 4). Chiaramente il “doveva” non è solo una connotazione geografica, ma ha anche un valore teologico. Gesù arrivava in Samaria, i cui abitanti erano considerati come dei pagani. “Mangiare con i Samaritani – diceva la tradizione rabbinica – è come mangiare carne di porco!”. Il Signore però ci va apposta per annunciare la presenza del Regno di Dio. Arriva stanco al pozzo di Sichem, scavato dal patriarca Giacobbe e donato a suo figlio Giuseppe (Giovanni 4, 6). Il pozzo abitualmente era situato fuori dall’abitato. Ed era sempre un luogo di incontro. I giovani poi si mettevano di guardia per poter contemplare le ragazze e scegliere quella di loro gradimento. Infatti attingere acqua era riservato alle donne, che si recavano sul far del tramonto (come è successo a Mosè, con le figlie di Ietro: fra di esse poi scelse Sipporà, che diventerà sua moglie: Esodo 2, 16-21).

Faceva caldo, perché siamo sul mezzogiorno. Ed ecco una donna Samaritana. Gesù aveva sete. Ci sono però diversi tipi di sete. Anche quella donna aveva sete, non solo di acqua, che si trovava nel pozzo di Giacobbe e che voleva attingere per riempire la sua brocca. Aveva sete, perché nella vita, nonostante avesse sperimentato sei mariti (= 5+1), non si sentiva ancora realizzata. Gesù le disse: “Dammi da bere!” (Giovanni 4, 7). E piano piano il Signore arrivò a spiegare che la vera sorgente dell’acqua viva era proprio Lui. La Samaritana sapeva che c’era l’acqua materiale che si trovava nel pozzo; però c’era anche l’acqua della Legge, le cui parole sono vita. Ma anche il cuore di una donna è un pozzo profondo, perché nonostante i sei mariti, la donna di Samaria non aveva ancora trovato la pace. Gesù allora le propone un’acqua speciale, che diventerà “sorgente di acqua zampillante in vita eterna” (Giovanni 4, 14).

Un po’ alla volta e con delicatezza, da vero comunicatore e da vero catechista, Gesù arriva a far capire alla donna Samaritana chi è veramente: Egli è colui che dà l’acqua viva (Giovanni 4, 15), ma è anche un profeta (Giovanni 4, 19). E poi il Cristo è il Messia, che anche la Samaritana aspettava. Allora Gesù esclamò: “Io-sono, che parlo a te!” (Giovanni 4, 26). Rivelazione totale dell’uomo Gesù. “In lui – dice san Paolo- abita corporalmente tutta la pienezza della divinità!” (Colossesi 2, 9).

Io-sono” è il nome di Dio, come è stato rivelato a Mosè (Esodo 3, 14).

Se Gesù è il Messia, se è il Figlio di Dio, è anche evidentemente il “salvatore del Mondo” (Giovanni 4, 42). Anche gli abitanti della Samaria, esclusi dai Giudei dalla salvezza secondo l’Alleanza sinaitica, possono essere salvati. E con loro tutti gli abitanti del Mondo, perché Gesù dona a tutti l’acqua viva, cioè l’amore del Padre e del Figlio, che è lo Spirito Santo. Per questo siamo tutti fratelli e sorelle, figli e figlie di Dio. Beviamo allora quest’acqua, che è abbondante particolarmente nel sacramento dell’Eucaristia.

San Daniele Comboni (1831-1881) sapeva per esperienza quanto era necessaria l’acqua nei suoi viaggi attraverso il Sahara per arrivare a Khartoum, capitale del suo Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale. Addirittura, quando si beveva durante la traversata del deserto, si utilizzavano bicchieri di latta per non vedere il colore dell’acqua conservata dentro le ghirbe (e divenuta per forza di colore giallastro e imbevibile).

Ma era soprattutto dell’acqua, che offriva Gesù con il suo Vangelo, che i popoli della Nigrizia desideravano ardentemente avere e sperimentare. Per questo il Comboni era disposto a donare non una vita, ma mille vite per la Missione.