Padre Vincenzo Percassi

 

Il brano del Vangelo di Matteo di questa domenica si caratterizza per l’imposizione di un duplice nome al bambino che nasce. Un primo nome, quello di Gesù, si riferisce alla sua missione di salvare gli uomini dai loro peccati. Il secondo nome, quello di Emmanuele, che significa “Dio con noi”, si riferisce alla nostra vocazione ad accoglierlo nella nostra vita come una presenza vitale. Questo bambino non ci salva con un atto esterno, sconnesso dalla nostra esperienza di ogni giorno. Egli ci salva per mezzo della sua comunione con noi. Egli sarà il Dio con noi e grazie a questo contatto con la nostra umanità egli apre per noi la strada verso un destino totalmente nuovo. Questo destino è ben espresso da San Paolo nell’introduzione alla lettera ai romani quando egli scrive: quel Gesù che è nato dalla stirpe di Davide secondo la carne e quindi ha condiviso in tutto la nostra condizione umana e storica, è stato anche costituito Figlio di Dio per la sua resurrezione dai morti, secondo uno spirito di santificazione che agisce con potenza in Lui ed in noi che crediamo. Adesso, conclude San Paolo, noi tutti siamo santi, non per magia, ma per vocazione, per una possibilità aperta che possiamo accettare o rifiutare. Una possibilità che non si realizza in un solo momento ma, proprio come per la persona umana di Gesù, attraverso un processo storico di crescita che da bambini ci fa giungere all’età adulta. Questa chiamata a divenire figli di Dio, a partecipare della vita divina e quindi dello Spirito Santo, rimette il mistero del Natale al centro della nostra vita e pone al nostro cuore la sfida della fede. Proprio perché questa chiamata è una possibilità e non un’esigenza essa domanda a ciascuno “l’obbedienza della fede”, un’adesione libera, un consenso quotidiano a questa “presenza” del Dio con noi che dietro ogni circostanza ci dà delle occasioni per crescere nell’amore e nella santità, cioè nella libertà dalla malizia e dalla cattiveria. È questa la sfida della fede che Isaia aveva posto al re Acaz in nome di Dio. Poiché questi si sentiva minacciato dalla potenza dell’Assiria, il profeta lo invita a chiedere a Dio un segno, che non fosse una semplice soluzione umana, ma qualcosa di più profondo degli inferi è più alto delle nubi, un segno cioè che esprimesse le possibilità di Dio. Acaz non prende sul serio questa sfida e risponde, non senza ironia, che proprio la sua fede non gli permette di tentare Dio. È l’atteggiamento di coloro che pur non rinunciando alla possibilità che Dio esista non riescono a credere che egli possa intervenire nella storia umana di ogni giorno e a riconoscere come in questa storia egli realizzi la sua opera. Come Acaz anche noi pur non negando i misteri della nostra fede troppo spesso guardiamo ad essi e in particolare al mistero del Natale come una bella favola il cui romanticismo è svuotato di ogni contenuto efficace per la nostra vita. La verità centrale della nostra fede, che cioè Dio è con noi e con noi opera per una salvezza di tutta la nostra vita, non viene contestata ma nemmeno messa alla prova. Semplicemente questo “vangelo” viene considerato troppo spirituale, troppo irrealistico, troppo estraneo rispetto alla nostra quotidianità e quindi messo da parte come un’ipotesi inutile o non praticabile. Con la scusa di non tentare Dio continuiamo a vivere senza santità, senza cioè un amore che sia più profondo degli inferi, capace cioè di affrontare ogni oscurità ed ogni morte. Senza un amore che sia alto come le nubi e quindi capace di darci un’esperienza reale della comunione con Dio. Come Acaz, anche Giuseppe, si trova esattamente davanti alla stessa sfida della fede. Egli ha un suo progetto matrimoniale che però viene messo in discussione da un’inspiegabile gravidanza di Maria. Egli lotta con i propri pensieri e i propri ragionamenti umani e avrebbe già ipotizzato una qualche precaria soluzione che gli permetta di tirarsi indietro senza fare del danno a Maria. Un sogno lo mette di fronte alla sfida dell’obbedienza della fede. Egli potrebbe giudicare l’evidenza e la concretezza delle circostanze facendo del suo giudizio il criterio ultimo per agire o forse, come spesso facciamo noi, per disprezzare, per ignorare o magari semplicemente per manipolare le cose perché vadano secondo le proprie aspettative e i propri interessi. Invece Giuseppe “lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli crede che in ciò che accade, in ogni circostanza vi è il Dio con noi, il Dio che opera per la nostra salvezza. Questo gli dona la forza di assumersi le proprie responsabilità e di riconciarsi con la propria storia.”(Cf. Papa Francesco). Il sogno non gli dà molte certezze eccetto l’incoraggiamento a fare un primo passo. L’obbedienza della fede nella realtà di ogni giorno, in effetti, è obbedienza al mistero non ad un telegramma. Eppure, è proprio attraverso questa obbedienza che impariamo a vivere ogni circostanza della nostra vita con responsabilità, cioè con la disposizione umile ad accogliere piuttosto che a giudicare, a prendersi cura piuttosto che a fare il proprio interesse. In fondo la santità è amore vissuto e l’amore vissuto è fondamentalmente responsabilità. In ogni circostanza, ad ogni costo.