Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

La terza Domenica di Avvento è chiamata “Domenica Gaudete”. E il sacerdote veste per la Messa la casula rosa, simbolo di gioia. La parola “Gaudete” viene dall’antifona di inizio, che a sua volta è tratta dalla lettera di san Paolo ai Cristiani di Filippi. In latino inizia così: “Gaudete in Domino semper” (Filippesi 4, 4) e vuol dire: “Siate sempre lieti nel Signore”. L’Avvento, come sappiamo, ha preso fin dagli inizi (secolo V) alcune caratteristiche della Quaresima. E ci voleva anche il digiuno, almeno tre giorni alla settimana. Ma il digiuno non aveva mai luogo la Domenica. Anzi i padroni avevano l’obbligo di dare ai loro dipendenti anche della carne, particolarmente in questa Domenica. Ciò significava che ormai la festa del Natale era vicina e ci si preparava ad accogliere il Signore nella gioia.

Del resto è quello che vede anche il profeta Isaia (Isaia 35, 1-10), quando descrive il ritorno dall’esilio babilonese (V secolo prima di Cristo) come un nuovo Esodo, sperimentato da Israele al momento della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Caratteristica di questo Esodo è l’abbondanza dei beni e il capovolgimento delle situazioni. “Coraggio, non temete – dice il profeta Isaia – Ecco il vostro Dio… Egli viene a salvarvi”. E dà degli esempi: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto!” (Isaia 35, 5-6). Ormai grazie all’intervento di Dio, inizia una nuova era. Si va verso una nuova edizione dell’Eden, del giardino paradisiaco, da dove ogni male e ogni sofferenza sono cacciati (Isaia 61, 1-6). Lo dice anche Giovanni il Battista, come abbiamo sentito Domenica scorsa. “Convertitevi – gridava, – poiché è qui il Regno dei Cieli” (Matteo 3, 2). Egli insegnava sulla scia dei profeti. Era necessario cambiare vita pertanto e prepararsi ad accogliere il Messia. Per questo Giovanni era come Elia, padre dei profeti (2Re 1, 8), aveva un vestito di peli di cammello e i fianchi stretti da una cintura, pronto per l’Esodo (Esodo 12, 11). Mangiava cavallette (che combattevano i serpenti, secondo la tradizione) e miele selvatico (cioè si cibava della Parola di Dio, dolce come zucchero: Salmo 119, 11). Ma Giovanni il Battista aspettava un Messia violento, perché il suo arrivo era un “giorno di vendetta” (Deuteronomio 32, 35). Infatti egli gridava: “Razza di vipere!” (Matteo 3, 7). Era la logica dell’Antico Testamento. Ma Gesù sceglie un’altra strada. Egli si presenta “mite e umile di cuore” (Matteo 11, 29). E quando entra in Gerusalemme, siede sopra “un puledro d’asina” (Giovanni 12, 15) e non su un cavallo, strumento di guerra, cavalcatura di re e di dominatori del Mondo. Egli ci dona l’olio della misericordia e ci mostra il volto di Dio, pieno di bontà. Un Dio così è inaudito, è uno scandalo. Anche Giovanni il Battista non sa capire e manda dei discepoli a interrogare Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Matteo 11, 3). Questa domanda è la radice della fede. Giovanni il Battista infatti è il profeta della verità. Egli fa la domanda a Chi solo può dare la vera risposta. Noi abbiamo le nostre idee, i nostri progetti, le nostre costruzioni, che a volte si riducono ad essere tante torri di Babele, cioè tanti fallimenti (Genesi 11, 1-9). L’unica domanda che dobbiamo fare è questa: “Sei tu?”. Giovanni il Battista aveva ragione. Egli porta a termine la profezia dell’Antico Testamento. Lo riconobbe lo stesso Gesù, quando disse: “Tra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista” (Matteo 11, 11). Però Egli aggiunse: “Ma il più piccolo nel Regno dei Cieli è più grande di lui”. Che cosa vuol dire il Signore? Chi crede nel Cristo, sta già dentro la casa del Padre, perché battezzato con fuoco e nello Spirito che gli fa gridare: “Abbà, Padre!” (Romani 8, 15). I discepoli di Gesù (cioè tutti i Cristiani) sono figli di Dio (1Giovanni 3, 1) e sono partecipi della natura divina (2 Pietro 1, 4).

Alla domanda di Giovanni il Battista, fatta attraverso i suoi discepoli, Gesù risponde con le sue opere, che tutti possono constatare. I ciechi vedono: noi vediamo solo le nostre realtà. Abbiamo bisogno di essere guariti da Gesù. Siamo zoppi. L’uomo vive per andare verso la casa del Padre, ma ci troviamo paralizzati. Gesù ci guarisce. Siamo lebbrosi. La lebbra infatti è come la morte che uccide la vita. Gesù ci risana. Siamo sordi, perché rifiutiamo di ascoltare la Parola di Dio, come Adamo (Genesi 3, 1-7). Solo Gesù ci può guarire. E la sua parola ci fa passare dalla morte alla vita. Ma se siamo poveri, se riconosciamo la nostra povertà, possiamo davvero essere evangelizzati, ricevere cioè la buona notizia e saziare la nostra fame per poter entrare nel Regno di Dio. “Beato – dice Gesù – colui che non trova in me motivo di scandalo” (Matteo 11, 6). E’ la decima beatitudine, secondo il Vangelo di Matteo. Gesù si congratula con chi lo accoglie, anche se Egli è una pietra di inciampo, perché il Signore ci presenta un Dio così diverso da come solitamente noi lo aspettiamo. Prepariamoci allora al Natale, ma non a una festa di regali, di alberi con luci e palline colorate: un Natale commerciale. Ma un Natale in cui scopriamo un Dio che si identifica, come dice Papa Francesco, con il povero, l’umile, l’abbandonato, il malato, il prigioniero, l’immigrato … lo “scarto” dell’umanità (Matteo 25, 31-46). Solo così il Natale sarà una festa vera e un avvenimento gioioso per tutta l’umanità.

Di questo ne era più che convinto san Daniele Comboni (1831-1881). Nel suo Piano per la “Rigenerazione della Nigrizia” del 18 settembre 1864, così si esprimeva: “Il filantropo cristiano, volgendo lo sguardo alle condizioni spirituali e sociali di quei popoli dell’Africa Centrale, … manifestò la sua fraterna commiserazione… per sollevare l’infelice sorte dei Neri dalla loro deplorabile condizione, indirizzandoli a vivere secondo il lume delle verità cristiane!”.

 P. Tonino Falaguasta Nyabenda