Padre Luigi Consonni

Commento alle letture: XXXI DOMENICA DEL T.O. -C-
(30/10/2022)

 

Prima lettura (Sap 11,22-12,2)

Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
Hai compassione di tutti, perché tutto puoi,
chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,
aspettando il loro pentimento.
Tu infatti ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?
Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?
Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,
Signore, amante della vita.
Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.
Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano
e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato,
perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.

Il testo è l’orazione dell’autore riguardo la compassione, la misericordia, la bontà, la tenerezza e il perdono di Dio verso chi si rapporta al Signore con cuore sincero nonostante il peccato. Per l’autore il mondo è poco più di niente, una realtà fragile, inconsistente e debole, “è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra”, vulnerabile al peccato.
Tuttavia il testo afferma che Dio esercita il suo infinito amore motivato dalla compassione – “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi” – in virtù della quale partecipa della sofferenza, della condizione disumana in cui giace l’umanità per causa propria. Nella sua misericordia “chiude gli occhi sui peccati degli uomini” e, “aspettando il loro pentimento”, esercita la pazienza e la speranza nella fiduciosa attesa che emerga in loro il pentimento.
Dato che tutto procede da Dio e a lui ritorna, l’autore afferma che egli “non prova disgusto per nessuna delle cose che hai creato”, e rafforza la convinzione che “se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?”. L’amore, atto creativo, è proprio della sua essenza ed esistenza.
La creazione, più che un momento puntuale nel quale le cose appaiono dal nulla, è un atto costante della volontà di Dio che chiama alla comunione con Lui, nella quale crea e ricrea ogni essere vivente. È la dinamica proiettata alla realizzazione piena della vita di ogni persona e dell’umanità, la cui meta è l’evento ultimo e definitivo, nel quale Dio si manifesta “tutto in tutti” (1Cor 15,28), nell’escatologico presente/futuro del suo regno, della sua sovranità.
La creatura è chiamata a coinvolgersi nell’azione creatrice di Dio, evento di salvezza dinamico nell’orizzonte escatologico presente/futuro e viceversa. L’amore donato declina immediatamente la responsabilità del ricevente, non solo per sé stesso ma per altri, per la comunità e l’umanità. La corretta comprensione e adesione al dono vince il peccato e, con esso, la sfiducia, l’indifferenza o il rifiuto nelle sue diverse espressioni.
Lo Spirito è la linfa della dinamica, del processo vitale; è incorruttibile nel trascorrere del tempo e integro nella sua essenza e azione. È presente nella persona e nel creato – “il tuo spirito incorruttibile è presente in tutte le cose” – dato che tutto appartiene a Dio. Il mondo da Lui creato, da Lui riceve il dono della comunione perché amante della pienezza di vita di tutto ciò che esiste.
Ecco perché Egli esercita la sua misericordia con indulgenza a favore della debolezza e del peccato degli uomini: “Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita”. L’indulgente è paziente nel soffrire la delusione, nel sentirsi defraudato o addirittura tradito, e rinnova la sua azione in modo che, nella mente e nel cuore del destinatario, si faccia spazio l’accoglienza del dono.
Lo Spazio è lo Spirito, lo Spazio dell’amore è spazio. E, nel prendere coscienza del proprio peccato, il destinatario accoglie con fiducia ciò che l’amore gli trasmette come dono, come nuovo spazio di vita: “Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore”.
La correzione rispetta la struttura, la costituzione della persona per la quale ogni reale progresso, soggetto alla gradualità, richiede attenzione e vigilanza affinché ostacoli, che si ritenevano superati, non prendano di nuovo il sopravvento. L’umiltà e la fiducia di “poter essere” – la fede antropologica – ha un ruolo imprescindibile per entrare nello Spazio, nello Spirito con determinazione e con gratitudine.
Il Signore “amante della vita” fa di tutto affinché ogni persona l’abbia in abbondanza in questa terra, anticipo della pienezza di vita, della gloria futura. Il cammino e il processo hanno come riferimento la persona di Gesù Cristo, come indica la seconda lettura.

 

Seconda lettura (2Ts 1,11-2,2)

Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.
Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.

Paolo prega per i cristiani della comunità “perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata”. Costoro sono resi degni dalla chiamata per la benevolenza di Dio, che si manifesta nell’accogliere con fiducia l’insegnamento e la pratica del Figlio inviato per capacitare, il credente e la comunità, alla causa dell’avvento del Regno di Dio.
La dignità prende consistenza per la condizione di nuova creatura, partecipe della vita divina nell’acquisire le condizioni per svolgere la missione di portare “a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede”. L’operosità, l’attività evangelizzatrice, efficace in ordine al fine, è determinata dalla qualità della fede, dalla fiducia di cui sopra.
Con essa emerge la glorificazione del “nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo. Il “nome” non è altro che amore; amore che conforma l’essenza e l’esistenza del Signore. E la glorificazione non è altro che lode e ringraziamento al Signore per il coinvolgimento nella vita di Dio.
Con altre parole, è il coinvolgimento nella vita trinitaria, per il quale la persona/comunità è manifestazione della gloria di Dio, foriera della vita in abbondanza personale e sociale. Il cuore dell’apostolo è rivolto a tal fine. Si può ritenere che il “cuore” di Dio – l’amore – nella persona/comunità configura l’adeguato rapporto con il Signore – “Gesù in voi, e voi in lui” – che motiva e sostiene gli stessi sentimenti e comportamenti riguardo al rapporto interpersonale e sociale. È anche quello che Teresa d’Avila riceve in una delle rivelazioni dal Signore: “Cercati in Me, Cercami in te”.
Gesù si fa carico delle fragilità e dei peccati per liberare dalla vergogna, dal peso della colpa e dalle varie forme di dipendenza che non permettono la libertà per amare. Nell’accogliere, per la fede, il dono il discepolo si fa carico dell’amore rigeneratore e purificatore di Gesù, che lo introduce nel regno di Dio.
Paolo passa, poi, ad un altro argomento. In quel tempo la “venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui” è ritenuta vicina e motiva viva attesa. Paolo sente il dovere di avvisare del pericolo di “lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare” da ispirazioni, discorsi e da scritti attribuiti a lui, “quasi che il giorno del Signore sia già presente”.
È certo che il coinvolgimento sincero e determinato per la causa del regno fa sorgere nell’animo la presenza dell’evento escatologico; in altre parole, la “pienezza della divinità” (Col 2,9), con la certezza del “ritorno” del Risorto che Gesù ha promesso prima di salire al cielo.
L’evento escatologico sigilla nel credente il presente/futuro di ciò che è. Pertanto è necessario prendere atto che il legame tra presente/futuro (già e non ancora) e viceversa futuro/presente (il non ancora nel già) ha una grande e imprescindibile portata spirituale nel sostenere e motivare la tensione tra il penultimo (il presente) e l’ultimo (il futuro) nell’oggi, nel conformare la realtà e l’efficacia dell’azione e della forza dello Spirito Santo nel vissuto giornaliero individuale e sociale.
È da considerare che l’annunciato “ritorno” di Gesù Cristo si riferisce a tale dinamica, nel far sì che ogni attimo conferisce al presente una carica umana e teologica di grande portata e importanza nell’accogliere il dono dell’avvento del Regno: nella circostanza giornaliera, la vita eterna.
Vivere nell’umile provvisorietà dello scorrere dei giorni non è così semplice come potrebbe sembrare. A chi pretende di vincere la difficoltà con l’intento di anticipare l’incognito, nel sapere in anticipo quando e come sarà “il giorno del Signore”, Paolo risponde con l’ammonizione “di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente”
La fiducia in Gesù Cristo, che motiva ad imitarlo nelle vicende giornaliere, è la stessa che riguarda anche il futuro, la meta dell’umanità e del creato per l’attrazione del mistero di Dio operante nel presente. È la combinazione presente/futuro e il contrario futuro/presente.
Il tutto che richiede l’esercizio del costante apprendimento della fede nel contesto e nella circostanza della vita giornaliera, il cui inizio è dato in maniera sorprendente e inaspettata dal vangelo odierno.

 

Vangelo (Lc 19,1-10)
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Il brano è molto conosciuto. Riguarda la conversione di Zacchèo, “capo dei pubblicani e ricco”, ritenuto un peccatore da tutti per il fatto che riscuoteva le tasse per conto dei romani. A lui si rivolgono i dipendenti per il subappalto di una parte della zona da lui affidata. Una volta stabilita la quantità di denaro da riscuotere, ciò che il subappaltante raccoglie di più dello stabilito rimane a lui.
Non è difficile immaginare lo sfruttamento e il peso finanziario sulle spalle del popolo. Il pubblicano è considerato una sorta di ladro legale al servizio dell’odiato straniero che domina il territorio. La conversione è ritenuta impossibile.
Zacchèo “cercava di vedere chi fosse Gesù”. Il termine “vedere” nei vangeli indica un incontro che trasforma la persona nell’amore; esso indica anche che Zacchèo era già incamminato in un percorso di conversione e cerca l’incontro con Gesù, nella speranza di trovare una risposta adeguata alla sua inquietudine.
ma non gli riusciva perché era piccolo di statura”. Alberto Maggi specifica che l’evangelista non vuole darci una indicazione sull’altezza o meno di Zacchèo. Il termine “piccolo”, cioè micros, significa che non è all’altezza di Gesù per l’attività che fa, ingannando e derubando gli altri, facendo del male e, soprattutto, accumulando ricchezza. I ricchi non sono all’altezza di Gesù.
Allora corse avanti. Ecco il primo dei cambiamenti che c’è in Zacchèo. È un capo dei pubblicani, una persona che, sebbene disprezzata, sarebbe temuta e riverita. E lui si mette a correre, cosa che in quella cultura rappresenta qualcosa di disonorevole, perché non si corre mai. E, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché Gesù doveva passare di là.
Il sicomoro è una pianta tipica della zona, una grande pianta. Ebbene, Zacchèo pensa che per vedere Gesù deve salire, invece Gesù lo inviterà a scendere. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito”. Lui pensava, secondo la mentalità religiosa del tempo, che per avvicinarsi a Dio bisognasse salire, invece Gesù lo invita a scendere. “Perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Il verbo “dovere”, adoperato da Luca, è un verbo con il quale gli evangelisti affermano la volontà divina. Quindi, questo doversi fermare a casa di Zacchèo, fa parte della volontà di Dio, del piano di salvezza di questo Dio che, a tutti, è venuto a proporre il suo amore.
L’invito e le parole di Gesù lo sorprendono: “Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”. La gioia manifesta la sintonia con la persona e l’insegnamento di Gesù. Che cosa lo abbia portato alla gioia è ciò che sta per fare.
Gesù, in un’espressione contenuta negli Atti degli apostoli dirà: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Inoltre, aveva proclamato beati quelli che fanno la scelta della povertà, della condivisione. E di fatto Zacchèo, alzatosi in segno di rispetto e considerazione, disse al Signore: “se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”.
Ma la circostanza provoca l’immediata reazione di tutti i presenti: “è entrato in casa di un peccatore!”. Non c’è da meravigliarsi della reazione. Per tutti è sconcertante mettersi a tavola con un peccatore, significa ammettere di condividerne la sua vita e le sue scelte. Come poteva Gesù, con la pretesa messianica, sedere a tavola con Zacchèo e compagni?
I peccatori come loro non avevano possibilità di redimersi. In ogni caso, se avessero voluto, dovevano restituire ciò che avevano riscosso in più, aumentato del 25%, secondo i precetti della Legge (quattro volte tanto sembra essere un errore di trascrizione) per ottenere la redenzione. Ma sapere a chi e quanto avevano rubato era impossibile. Perciò la redenzione era impossibile, anche se l’avessero desiderata.
Per la persona attaccata alla ricchezza non è facile staccarsi dal potere e dalle sicurezze che offre. In Zacchèo si è aperta una breccia nel suo mondo interiore, accogliendo il Signore in quanto aveva prevalso la forza di persuasione della Sua parola e personalità, e sconfitto le resistenze.
Gesù, con il suo atteggiamento verso i già condannati secondo la teologia corrente, afferma: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”; e risalta l’evento della redenzione disponibile, qui e ora, per tutti indistintamente, manifestazione dell’arrivo del regno di Dio e dell’amore gratuito e incessante del Padre.
Questo “oggi” ricorda quello pronunciato nella sinagoga del suo paese, all’inizio della sua missione (Lc 4,21), e l’importanza di vivere il presente come persona redenta e giustificata dalla fede. È proprio la fede che fa sorgere nell’animo la coscienza della giustificazione.
Gesù, davanti ai presenti giustifica il suo operato dicendo: “perché anch’egli è figlio di Abramo”. E
, in virtù della fedeltà di Dio alla promessa, aggiunge: “Il figlio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto”, indicando la finalità ultima e il senso della sua missione nell’amore misericordioso del Padre, che si offre in ogni circostanza a favore di ogni persona.